Due marzo 1983, Torino viene sconquassata dal primo grande scandalo mediatico delle tangenti (c’erano già stati Savona e Parma, altre due tangenti-story di sinistra). Adriano Zampini, faccendiere con due chilometri di pelo sullo stomaco, ex alpino, veneto, probabilmente legato ad apparati dell’intelligence italiana, si mise d’accordo con Diego Novelli e raccontò ai magistrati di un giro di tangenti pagate al Pci, al Psi e alla Dc, anche dalla Fiat. Andarono in prigione Giancarlo Quagliotti, capogruppo del Pci in comune, Franco Revelli, capogruppo del Pci in Regione, Enzo Biffi Gentili, vicesindaco socialista di Torino, suo fratello Nanni, il consigliere comunale dello stesso partito Libertino Scicolone, il capogruppo Dc Giuseppe Gatti e il segretario del suo partito, Claudio Artusi (quest’ultimo lo ritroveremo tanti anni dopo ai vertici della Fiera di Milano). Finirono agli arresti alcuni funzionari e due assessori regionali socialisti, Claudio Simonelli e Gianluigi Testa. Ma ce ne fu anche per i vertici della Fiat: a processo andò Umberto Pecchini, importante manager dell’azienda torinese. Zampini tirò esplicitamente in ballo (lo fece rilasciandomi un’intervista per l’emittente privata, del Pci, di cui ero il caporedattore), l’ad di Fiat Cesare Romiti, salvato da Pecchini che si immolò perché il suo capo non fosse coinvolto. Un terremoto che molti osservatori, esattamente 10 anni dopo, all’esplodere di Mani Pulite, definiranno come “le prove generali delle inchieste di Antonio Di Pietro”. Fu anche la prima volta che si parlò di uso politico della magistratura: quell’inchiesta, infatti, di cui si aveva sentore da un paio di mesi, tolse di mezzo il più accreditato candidato, dopo le dimissioni di Renzo Gianotti, alla guida provinciale del Pci, Giancarlo Quagliotti. E aprì la strada a Piero Fassino che fu incoronato segretario al congresso torinese concluso, con un lungo intervento sulla questione morale, da Enrico Berlinguer. Fu nella primavera di quell’anno, 1983, che iniziò l’indissolubile e strategico patto di ferro tra Piero Fassino e Primo Greganti, amministratore della Federazione del partito comunista torinese, la mitica “Federasciun” di via Chiesa della Salute. A Greganti il compito di trovare i soldi per pagare i funzionari del partito, i giornalisti dell’Unità, di Nuova Società (la rivista di Diego Novelli, di Saverio Vertone e di Giuliano Ferrara), di Radio Flash, di Videouno, della società di raccolta pubblicitaria Eipu, della Gep (Gruppo editoriale Piemonte). Dal compagno G dipendevano, con potere assoluto e massima autonomia, anche le iniziative “collaterali”, come le Feste dell’Unità. Fu lui il primo a introdurre, in barba ai pareri contrari che arrivavano da quasi tutte le sezioni del Pci, le sponsorizzazioni. Così, a metà anni Ottanta le Feste dell’Unità erano dei veri e propri centri commerciali. Osò il massimo: si mise d’accordo con i vertici di Corso Marconi (allora sede degli uffici di Agnelli e di Romiti) per portare alla Festa dell’Unità anche lo stand della Fiat. Così gli operai fabbricavano la Uno e se l’andavano poi a comprare alla festa del Partito che li avrebbe dovuto difendere dai capireparto. Il compagna G diventava rosso e gli si gonfiavano le vene del collo se gli si faceva notare che mal conciliava il tempio dei mercanti in cui aveva trasformato la sacralità della Festa dell’Unità, con la sventolata moralità usata da lui e da Fassino per far fuori forse il miglior dirigente di cui il Pci disponesse: dopo l’arresto per Giancarlo Quagliotti arrivarono, infatti, il linciaggio con l’espulsione dal partito votata dal Comitato federale (Sergio Chiamparino si astenne) e la diffusione di volantini contro di lui in città. E’ solo una notazione a margine che Quagliotti oggi sia il principale consigliere politico di Fassino e il più ascoltato ed “esperto” dirigente del PD piemontese. Dunque la premiata ditta P&P (Piero & Primo) nacque 31 anni fa sul cadavere dei miglioristi torinesi, guidati appunto da Quagliotti e in un modo o nell’altro messi all’angolo, epurati con ignominia. Da Fassino e dal suo gruppo dirigente. Greganti raccoglieva soldi e lo faceva girando per l’Italia mettendo in campo i suoi rapporti con i colossi della cooperazione rossa delle costruzioni , come la CMC e la CCPL, con le banche e le assicurazioni, con Piero Verzelletti, con gli amministratori locali, attaverso la gestione di eventi culturali e di concerti (era già amministratore del Pci quando Radio Flash organizzò il grande concerto dei Rolling Stones, nel luglio del 1982), con la organizzazione delle Feste dell’Unità. Il flusso di tangenti si era momentaneamente interrotto (almeno a Torino) perché la Procura della Repubblica stava con il fiato sul collo. Quindi toccava fare un salto di qualità. L’arresto operato dal pool di mani pulite nel 1993 dimostrò proprio questo: Greganti aveva preso dei soldi da un costruttore, da girare al partito. Lui si difese dicendo che davvero erano soldi suoi. Qualcuno mi raccontò che quel danaro doveva servirgli per portare a termine, insieme a suo fratello che si chiama Secondo, un affare con il Ministero dei trasporti dell’Unione sovietica. Scrisse anche un paio di libri con una casa editrice “affidabilmente di sinistra”. La galera e l’abile strategia comunicativa, di fatto aiutata da Di Pietro, secondo la quale il Compagno G era una specie di eroe perché non aveva parlato, un duro insomma, lo misero al riparo da attenzioni giudiziarie e mediatiche per molto tempo. “Eppure” mi ha raccontato un ex amministratore socialista di un importante comune della cintura torinese, che fu arrestato per una vicenda legata alla sanità “una volta ci siamo trovati a fare anticamera davanti alla porta dello stesso imprenditore… Io ero lì per il Psi, lui per il Pci/Pds…”. E così Greganti, paradossalmente, dal suo ufficetto minimal in una viuzza del quadrilatero romanico di Torino, ha potuto continuare a operare, sicuramente dal 2005, portando sempre Fassino nel cuore. Ha fatto business perfino con Valerio Merola il Merolone per la produzione di telenovelas a Cuba, ci ha provato con il Bingo, in società con altri, pensando che avrebbe sfondato come in Spagna. Poi si è occupato di mercati cinesi, africani, continuando a vivere una vita agiata ma non esagerata, con la sua bella villa sulla collina torinese. Il suo gran muoversi nel mondo dell’intermediazione internazionale, infatti, è poco probabile che fosse finalizzato alle proprie tasche. Come, d’altronde sta venendo fuori dalla inchiesta sugli appalti di Expo 2015.Un vero uomo di partito nato nel partito, istruito dal grande amministratore della Federazione comunista umbra Egidio Papalini, detto l’uomo senza dita, aveva e ha due colonne salomoniche: il PD e Piero. Come si fa a non voler bene a un ragazzo alto un metro e novantadue che pesa 66 chili… Ora, quel ragazzo che è diventato sindaco di Torino, dice di non avere rapporti con il mitico compagno G e che le notizie diffuse dall’imprenditore Enrico Malatauro, quello che sta raccontando le tangenti a Expo 2015, sono false e diffamanti. Capito Compagno G? “Lui conosce Greganti” oramai è diffamatorio. Che effetto fa passare da essere paragonato a un eroe a valere quanto una diffamazione?
Marco Gregoretti