Ecco il secondo dei due articoli che feci per Milano Finanza nel 2008. I provvedimenti contro i gruppi bancari italiani che presero i giudici di New York, coadiuvati dalla Procura della Repubblica di Milano, furono durissimi. L’accusa era che i soldi finissero, “ripuliti” dagli istituti italiani, nelle banche con cui era vietato intrattenere qualsiasi tipo di rapporto perché sospettate di finanziare le organizzazioni terroristiche fondamentaliste.
(MG)
Il procuratore distrettuale per la contea di New York e il Dipartimento della giustizia degli Stati Uniti sono più che soddisfatti. In questi giorni stanno valutando il voluminoso materiale con cui l’autorità giudiziaria italiana ha risposto alla rogatoria del 23 gennaio scorso tramite la quale venivano richiesti riscontri sulle presunte violazioni da parte di importanti istituti di credito, tra cui Intesa Sanpaolo, delle disposizioni di “embargo finanziario” nei confronti di banche dei cosiddetti paesi canaglia: Iran, Siria, Sudan, Corea del Nord e, in precedenza, anche Libia. Che l’esito stesse particolarmente a cuore è attestato da una circostanza del tutto inusuale. Nella rogatoria veniva esplicitamente chiesto che delle indagini si occupasse anche il sostituto procuratore di Milano Alfredo Robledo, lo stesso dell’inchiesta Oil for drug: “In quanto il dottor Robledo è già al corrente degli argomenti ivi contenuti”.
Tutti i quesiti posti dai magistrati americani hanno trovato risposte, confessioni di alti dirigenti, mail probanti, telegrammi e perfino appunti a mano. Secondo gli investigatori americani “sono stati violati i filtri Ofac (l’ufficio che controlla le attività estere, ndr) che servono a identificare e respingere fondi provenienti dal terrorismo, fondi sospetti o diversamente proibiti provenienti da banche iraniane come la Bank Melli. Al fine di aggirare e sorpassare questi sistemi, Bank Me1li e i suoi cospiratori hanno falsificato i dati di origine dei bonifici che identificavano come mittente la Bank Melli e altri enti sanzionati (…)
Obbligati a trovare intermediari per assisterli nella loro impresa criminosa (…) ruolo che avrebbero svolto banche come la Banca Intesa-Sanpaolo”. Le perquisizioni improvvise disposte alle 10 di mattina del primo aprile dal giudice Massimo Maiello negli uffici più importanti di Intesa Sanpaolo e gli interrogatori delle settimane successive, hanno confermato ai militari della guardia di finanza, comandati dal colonnello Roberto Rapanotti assistito sul campo dal maresciallo Domenico Siravo, una situazione consolidata storicamente.
Alcuni dirigenti di Intesa Sanpaolo, come Rony Hamaui, a capo della direzione financial institution della banca fino all’estate del 2006, hanno ammesso di aver appreso da fonte indiretta che si doveva operare garantendo la riservatezza, nonostante le disposizioni Usa, attraverso “la struttura di operation di Parma e due strutture di Milano”. Altri, invece, hanno sostanzialmente reso delle vere e proprie confessioni. Ivo Angelin, per ironia della sorte nato proprio ad Aviano, sede di una base aerea Nato, responsabile dei servizi operativi e di banca depositaria corporate, durante l’interrogatorio del 3 aprile ha dichiarato: “In relazione ad alcune transazioni finanziarie, Banca Intesa si è adoperata affinché formalmente non comparisse il nominativo di banche site presso paesi cosiddetti emergenti, ovvero ha posto in essere messaggi swift di copertura di fondi verso la nostra corrispondente newyorkese qualificando dette operazioni come interbancarie, e quindi con l’utilizzo del codice 202, mentre l’effettiva operazione sottostante veniva rappresentata fedelmente con il codice 103. L’operatività in tal senso fu disposta all’ufficio di cui sono responsabile dal 2003 a mezzo telex del 13 agosto 2001 proveniente dalla direzione rete estera gestione e sviluppo affari dell’allora Banca Commerciale (poi incorporata in Banca Intesa, ndr) e avente ad oggetto Bank Melli Iran”. Di questo telex, usato come risposta da parte del financial institution ogniqualvolta qualche dirigente della banca chiedeva lumi su come comportarsi con le “banche canaglia”, si parla anche nell’interrogatorio, sempre il 3 aprile, di un altro alto dirigente di Intesa-Sanpaolo.
Spiega Antonio Stefani, a capo dell’ufficio payments service della divisione corporate financial istitution, con sede a Parma: “In virtù dell’incarico da me ricoperto ho potuto constatare che Banca Intesa ha operato in modo tale che non comparissero i nomi di banche iraniane che disponevano il trasferimento dei fondi.
Vigevano specifiche disposizioni in tal senso. Mi riferisco alla comunicazione datata 13 agosto da parte della Direzione rete estera gestione e sviluppo affari”. Stessa risposta quando Angelin chiede spiegazioni via web il 21 luglio 2006. Sempre in quel telegramma si legge: “Per evitare che, in base alla normativa vigente, negli Stati Uniti tali trasferimenti siano rifiutati, occorrerà indirizzare l’ordine direttamente a Lloyds Bank Londra con tutti i riferimenti completi, effettuando la copertura tramite banca americana senza menzionare il none della banca iraniana beneficiaria finale/ordinante del trasferimento, come già in atto da tempo”.
Un testo che lascia pochi dubbi.
E che si aggiunge ad altro materiale elettronico e cartaceo sequestrato dalla polizia giudiziaria.
Come appunti su block notes a quadretti di formato A4 in cui il dirigente che scrive titola così: U-turn cover payments Iran. E, poi, sotto: “Queste disposizioni (202) dicevano di occultare il nome ordinante che veniva convertito (Parma) in ordinante Intesa …”. O come quella legenda interna proveniente dal Servizio mercati emergenti-Area Turchia & Medioriente, del giugno 2004 con cui si “suggerisce” la procedura di copertura anche per ovviare alle sanzioni americane disposte nei confronti della banche di un altro paese, la Siria. Dall’analisi della documentazione consegnata ai funzionari americani risulta coinvolto anche Unicredit, il secondo gruppo creditizio in Italia, in stretto contatto con una banca siriana.
Unicredit è tirato in ballo proprio dall’interrogatorio di Stefani che racconta di un’operazione del 2006 che vedeva interessate Intesa-Sanpaolo e Unicredit. “In particolare”, dice Stefani, “Banca Intesa aveva provveduto a inoltrare un messaggio swift alla propria corrispondente di New York, comprensivo di tutte le indicazioni, ivi incluso l’indicativo della banca mittente, di nazionalità siriana. Per questo motivo lo stesso era stato bloccato dalla nostra corrispondente perché in contrasto con la normativa antiriciclaggio americana e i relativi fondi erano stati pertanto trasferiti alla banca destinataria, Unicredit. Che nel messaggio swift in buona sostanza ci rappresentava che, onde evitare i problemi che poi si sono verificati, era indispensabile, in operazioni del genere, non indicare il nominativo della banca ordinante”. Negli uffici perquisiti c’era anche il testo che coinvolge Unicredit: “Come dovrebbe essere noto, in modo particolare a un istituto del vostro standing, esiste da parte degli Usa un embargo nei confronti della Siria. Pertanto, per evitare quanto impropriamente accaduto, sussiste la necessità di provvedere alla copertura tramite corr. Usa senza l’indicazione della banca/paese di provenienza dell’ordine ordine di trasferimento”.
Le conseguenze di questa vicenda sono incerte. In procura a Milano non è stato aperto alcun fascicolo. E non sembra che i tribunali americani vogliano procedere contro i dirigenti di Intesa Sanpaolo per i reati ipotizzati nella rogatoria: falsificazione di atti commerciali, frode di trasferimento telegrafico e riciclaggio.
Evidentemente la buona fede dei top manager dell’istituto fa premio sulle ipotesi di reato.
Resta solo da capire che cosa succederà alla sede newyorkese di Intesa Sanpaolo, nell’occhio del ciclone. I vertici del gruppo bancario potrebbero anche valutare di limitarne momentaneamente le attività. Nel frattempo, però, le indagini partite da New York si stanno allargando ad altri paesi europei, come la Gran Bretagna, dove sarebbero nel mirino alcuni importanti istituti. Al Dipartimento di Stato Usa si augurano di trovare un atteggiamento collaborativo come quello riscontrato in Italia.
L’indagine è stata rapida e i testimoni hanno risposto alle domande senza reticenze. A loro gli americani chiedono un ultimo sforzo: “Vénite a deporre anche qui. Vi paghiamo il viaggio, il vitto e l’alloggio”.
Marco Gregoretti