“Mi rivolgevano la parola soltanto per dirmi che ero Tommaso Buscetta (Il pentito di Mafia dalle cui rivelazioni a Giovanni Falcone scaturì la più grande operazione contro la Cupola di Cosa Nostra e il relativo maxi processo Ndr). Buscetta era diventato il mio soprannome, lo sfregio quotidiano”. È Francesco Ricca, il più grande dei quattro fratellini di Cuneo sottratti alla mamma dopo che aveva accusato il marito di continue violenze domestiche, a raccontare questo squallido bullismo subito nella struttura dove era ospitato. Ieri e oggi ci siamo sentiti (25 e 26 dicembre 2021) per ricordare, oggi ce Francesco è finalmente a casa, di quando a Natale dell’anno scorso (2020) andai a trovarlo, come gli avevo promesso. Ovviamente non mi fecero entrare. Ma riuscimmo a scambiarci qualche parola lo stesso. Poi l’operatrice chiamò i Carabinieri. Quel breve colloquio con me, da una parte all’altra della cancellata, gli è costato carissimo. Io l’ho saputo soltanto oggi. Ne’ lui, ne’ la mamma, Alma Badino, mi avevano mai raccontato nulla.
Tommaso Buscetta è il nomignolo da “infame” che Francesco si guadagnò per aver fatto la spia, perché ha parlato con i giornalisti, denunciando quanto accade nelle cosiddette strutture di accoglienza. “Quella sera di un anno fa… Ecco, dopo che te ne sei andato alcuni ospiti della comunità hanno cominciato a chiamarmi in quel modo (Buscetta). Erano palesemente tutti adirati con me. Non solo loro. Avevo paura”. Perché? “Beh, provarono perfino a dar fuoco alla porta di camera mia. Portarono via i miei oggetti personali e rubarono i miei soldi. Mi sentivo indifeso, non ero tutelato”. Le istituzioni sapevano? Fecero qualche cosa? “Un giorno venne in visita Emma Avezzù (Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei minori di Torino),
ufficialmente per fare un’ispezione. Avrei potuto pensare, che, magari, volesse proteggermi, tutelarmi. Invece…” Invece? “Beh, mi spaventò ancora di più perché era assolutamente chiaro che nel suo mirino ci fossi io”. In che senso? Perché dici questo? “Perché continuò a ripetermi, certo non con il sorriso, di smetterla di scrivere, di denunciare, di fare tutto quello che avevo fatto fino a quel momento. Ma io credo che se adesso sono a casa è anche perché ho scritto, ho parlato con i giornalisti come te, ho fatto post e commenti. Ma non è finita. Dopo che te ne sei andato, ogni tot veniva un Carabiniere a parlare con me, a interrogarmi sulle mie intenzioni. E poi un giorno… Vabbè, no, questo non lo dico”. Come vuoi. Però se lo ritieni importante, perché no? “Guarda, i vigili di prossimità convocarono me e mia sorella e ci dissero che se non avessimo subito consegnato a loro i nostri telefoni cellulari avremmo subito una multa e rischiato una condanna a tre anni di carcere”.
Marco Gregoretti