«Siamo contenti, nostra figlia ha bisogno della verità». Sono queste le prime parole di Rita, la mamma di Chiara Poggi, 24 anni, uccisa a Garlasco il 13 agosto del 2007. Giovedì 18 aprile lei e il marito Giuseppe sono rimasti a casa, nella loro villetta di via Pascoli dove la loro unica figlia è stata massacrata. Vicini, nel loro salotto, hanno atteso la sentenza della Suprema Corte di Cassazione che doveva decidere se assolvere definitivamente Alberto Stasi, 29 anni, unico imputato per l’omicidio di loro figlia, o se annullare la decisione dei giudici d’appello e rifare il processo. «Non è sicuro che Stasi sia innocente», ha sentenziato la prima sezione penale della Cassazione. E mamma Rita finalmente ha respirato un po’: il caso non è chiuso. Non ancora.
«Sono dispiaciuto, non capisco il perché di un verdetto così», ha confidato Alberto Stasi, anche lui assente dall’aula, al suo avvocato Fabio Giarda, convinto dell’innocenza del suo cliente. E così Garlasco diventa come Perugia, Alberto Stasi come Amanda Knox: la Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione pronunciata durante il processo d’appello. Per il delitto di Perugia ora sperano in un po’ di giustizia i famigliari di Meredith Kercher; nel paesino della Lomellina i genitori di Chiara hanno ripreso fiducia nella giustizia. Ma come è possibile che un imputato dichiarato per due volte innocente, ora sia di nuovo considerato il sospettato numero uno? Mi dice una fonte investigativa: «La verità è che fin dall’inizio c’erano elementi da approfondire. Non capisco perché non siano state fatte indagini a 360 gradi, ma soltanto in una direzione».
Dai filmati non richiesti subito dove si poteva vedere Alberto Stasi insieme a un’altra persona in partenza per Londra all’aeroporto di Malpensa, al mancato approfondimento della pista “pedofila” come movente, al clamoroso pasticcio della bicicletta: molti gli elementi tralasciati dagli investigatori.
Secondo quanto raccontato anche dalla vicina di casa dei Poggi, Franca Bermani, 77 anni, la bicicletta vista davanti alla villetta la mattina dell’omicidio era nera e da donna. Circostanza confermata anche dalla fonte con cui ho parlato e che potrebbe portare alla ricerca di moventi che non riguardano soltanto l’unico imputato, Stasi. Qualcun altro è coinvolto nell’omicidio di Chiara?
La bici nera da donna è assolutamente incompatibile con quella da uomo prelevata a casa di Stasi, quella con le tracce di sangue sui pedali che era agli atti del processo. Non solo: secondo una confidenza che ho ricevuto, anche la terza bicicletta nera, simile a quella descritta da Franca Bermani custodita all’interno del magazzino di Rocco Stasi, padre di Alberto, non sarebbe quella giusta: al momento dell’omicidio, infatti, si trovava all’interno del magazzino da 15 giorni. Rocco Stasi, infatti, era in ferie e aveva inserito l’antifurto. Un sistema d’allarme moderno che registra automaticamente quando qualcuno lo disinserisce, e che, dai controlli disposti, non risulta essere stato mai disinserito. Perché e chi non ha voluto approfondire la ricerca della bicicletta giusta? E come mai alcuni testimoni hanno avuto poco credito nonostante fossero sostenuti da altre testimonianze incrociate?
E perché non è stata presa in considerazione l’ipotesi, che qualcuno in paese ora avanza, di profondi dissidi tra Chiara e altre persone?
Naturalmente le indagini fanno il loro corso e se ora la Cassazione chiede di rifare tutto è perché ci sono molti dubbi sullo svolgimento stesso dell’inchiesta. A partire dal capello castano corto trovato sul palmo della mano sinistra della giovane uccisa. Gian Luigi Tizzoni, avvocato della famiglia Poggi, aveva chiesto senza successo che fosse effettuato l’esame del dna sul bulbo. È assai probabile che quella richiesta ora venga accolta per stabilire a chi appartenesse, dando così un elemento di chiarezza in più a una storia che è tutta da riscrivere.
Anche perché ci sono ancora alcuni interrogativi lasciati aperti su risvolti di cui poco si è parlato e scritto. Per esempio la vicenda giudiziaria che ha toccato l’allora comandante della stazione dei carabinieri di Garlasco, il maresciallo luogotenente Francesco Marchetto, 52 anni, ora in pensione per alcuni problemi cardiaci, che per primo intervenne sul caso ma che poi fu misteriosamente fermato dalla Compagnia dei carabinieri di Vigevano, la quale avocò a se l’intera indagine. Eppure il maresciallo era molto vicino alla verità.
Marchetto denunciò il comandante di Vigevano, Gennaro Cassese, per abuso d’ufficio. Cassese lo controdenunciò per diversi reati, tra cui la calunnia, da cui poi è stato assolto, lo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione e l’utilizzo illecito di apparecchiature per intercettazioni ambientali, reati per i quali è stato condannato a due anni e otto mesi (l’avvocato di Marchetto, Maurizio Carta, ha già annunciato che farà ricorso in appello). Una donna, conoscente del maresciallo, coinvolta nell’inchiesta e poi risultata totalmente innocente, tentò il suicidio con i barbiturici e si salvò per un colpo di fortuna che portò i carabinieri a trovarla di notte in macchina in fin di vita.
Ora poi c’è un altro dramma nel dramma. Il suicidio di un carabiniere di Vigevano. Il maresciallo Romeo Braj, 37 anni, sposato con due figli di 2 e 8 anni, comandante del nucleo radiomobile della Compagnia di Vigevano, si è ucciso sparandosi con la pistola di ordinanza la mattina del 26 marzo scorso (2013 ndr) nelle campagne di Cassolnovo, poco dopo essere uscito di casa per andare in caserma. Secondo alcune testimonianze avrebbe lasciato una lettera in macchina: è sparita insieme alle ragioni che hanno spinto il maresciallo a suicidarsi. Un suo collega si lascia scappare un «improvviso, inaspettato … ».
Forse l’autopsia disposta dal colonnello Ernesto Di Gregorio e l’indagine avviata dal pubblico ministero di Vigevano, Mario Andrigo, potranno dare qualche risposta in più.
Anche se per ora non sembrano esserci collegamenti diretti con l’omicidio di Chiara Poggi. Un delitto sul quale l’investigatore che mi ha parlato dice: «Pensavo che Stasi fosse colpevole. Ora non ne sono più convinto. La mano sul fuoco? Io non ce la metterei».
di Marco Gregoretti (scritto nel 2013)