TESTO DELL’ARTICOLO
Chiese aiuto quel signore di 75 anni. Era un ex operaio che aveva lavorato a lungo all’estero e viveva in un quartiere popolare di Milano. Chiamò un centralino. Poteva essere il 113, il 112, il 118, non ha importanza, aveva bisogno di ascoltare una voce. “Mi sento solo” disse al telefono, “tanto solo”. Sua moglie era morta e il figlio che abitava con lui uscì da casa sbattendo la porta. Al padre, che non smise mai di cercarlo, non disse neanche dove sarebbe andato. Quando bussarono per andare fargli un po’ di compagnia si trovarono di fronte un uomo che si era completamente lasciato andare, che stava chiuso tutto il giorno senza nulla da fare, senza nulla da desiderare. Dopo tre mesi, quando morì, con lui non c’era nessuno. Furono i vicini ad avvertire per la solita triste storia del “forte odore che proviene da quell’appartamento”. Intervenne una pattuglia. Non vogliono essere citati. A Libero dicono solo: “Il figlio non è neanche venuto a casa. La salma è stata affidata all’autorità sanitaria”.
È una storia di ordinaria solitudine milanese, dove la situazione esistenziale di migliaia di persone che perdono l’autonomia per problemi anagrafici, sta letteralmente sfuggendo di mano a chi amministra questa come altre grandi metropoli. Un fenomeno così esteso, riguarda almeno 100 mila persone nella sola Lombardia, che le forze dell’ordine mantengono pudore nel raccontare quel che vedono tutti i giorni, quando vengono allertate per intervenire. “Purtroppo” dicono “arriviamo quasi sempre troppo tardi. Ma non potete immaginare il degrado in cui sono immerse queste povere persone”. Finiscono per trovare compagnia nelle cose, negli oggetti, perfino nella spazzatura. È successo, per esempio, che per entrare in un appartamento sia stato necessario l’intervento dei vigili del fuoco: l’immondizia accumulata impediva di aprire la porta del pianerottolo. Per constatare il decesso dell’ennesimo “vecchio” morto da solo, nella sua stanza, i pompieri si sono calati dalla finestra. È una specie di nuova sindrome metropolitana: l’accumulatore seriale. Come l’ultraottantenne che giaceva in stato avanzato di decomposizione, seduto sulla poltrona, l’unico spazio libero. Altrove, ovunque, c’erano bottiglie di vetro. Che raccoglieva e portava a casa sua, in corso Lodi. Perfino sul letto. Niente, neanche posto per uno spillo. Solo e soltanto bottiglie. “A volte entri in un film dell’orrore” dice un operatore “spazzatura da tutte le parti, al punto che ci sono i liquidi del percolato, un corpo decomposto…Non si riesce neppure a recuperare gli effetti personali della vittima. Una tristezza infinita se pensi che alcuni di questi anziani abbandonati da tutti hanno vissuto in giro per il mondo, hanno conosciuto persone ovunque… E muoiono così”.
Spiega Giuliana Torre, psichiatra e psicoterapeuta, volontaria del Cisom (Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta), che a questo tema ha dedicato studi e ricerche: “Ad un certo punto il cervello restringe il campo. La “confort zone” diventa sempre più piccola ed esclude tutto ciò che è fuori: le relazioni sociali, per esempio. È quello che è successo con il lock down. Lo spirito di adattamento dell’uomo, che, generalmente, è il nostro amico più importante, è diventato il nemico. Le persone, gli anziani in particolare, infatti, si sono abituati, adattati, a non uscire, a non parlare con i vicini di casa, a non aver una vita sociale. Il loro cervello, il nostro cervello, in quel periodo ha perso alcune competenze”. Secondo la dottoressa Torre l’atrofizzarsi della memoria è una delle possibili spiegazioni per i casi estremi (che poi tanto estremi, in realtà, non sono) “perché” dice “provoca atti mancati come non chiudere il gas o lasciare aperta l’acqua. Gli anziani, con l’emergenza Covid, tappati in camera da letto o davanti alla tv o in cucina, spaventati dal virus, si sono ritirati. Fino a morire da soli. Speriamo che ci serva da lezione: la prossima volta facciamoli uscire due ore al giorno, consentiamogli di andare a trovare il vicino di casa. Non spariamo più con il cannone contro la mosca”.
La cronaca, però, registra isolamento, menefreghismo, emarginazione a prescindere dal Covid, dal livello sociale di appartenenza, dalla zona in cui si abita. Non sono più soltanto le pareti di cartongesso dei palazzoni delle periferie, quelli della legge 25, a raccontare che se hai più di 70 anni nessuno ti si fila, soprattutto se sei indifeso. In corso 22 marzo, per esempio, marito e moglie erano soli a prescindere da ogni spiegazione umana. Lei, malata di Alzheimer, non si era neanche accorta che il coniuge era morto da tre giorni. Seduta sul divano stava guardando la tv quando gli operatori sono entrati. “Signora, suo marito?”. “È di là, a letto che, riposa”. Quanti si ricordano, fino a pochi mesi fa, quella panchina di via Zara, in zona Mecenate, che sembrava un minuscolo appartamento con i muri fatti di nylon, per ripararsi dal freddo. E con sotto le lenzuola e le coperte. Era la “casa” di una professoressa di greco che ancora recitava l’Iliade in lingua antica. La mattina andava all’Oasi di San Francesco per farsi una doccia e mangiare qualche cosa. Poi si chiudeva in biblioteca a leggere e a studiare. Perché era lì? Beh, raccontarlo fa venire il magone: viveva per la strada perché la nuora e il figlio non l’avevano più voluta in casa: da quando era rimasta vedova stava con loro. Un giorno un volontario è passato davanti alla panchina di via Zara. Ma le pareti di nylon e le coperte non c’erano più.
“La gande città” dice ancora Torre “logora la disponibilità, erode la cultura dell’altro e rende difficile la socialità degli anziani. Guardi gli scalini dei tram, o la mancanza di servizi igienici per loro, negli spazi pubblici! Sono da soli quasi tutti. E dove fanno i bisogni quando escono?”. Non basta: “Persino nelle riunioni di condominio” aggiunge, infatti, Torre, ”chi è nelle terza o nella quarta età è visto come un nemico. Altro che solidarietà. D’altronde siamo consumati dalla quotidianità metropolitana”. Viene nostalgia per le vecchie case di ringhiera, oggi spesso ricche e radical chic, dove un tempo le famiglie che vivevano in quei palazzi erano obbligate a incontrarsi. A volte si detestavano. Ma c’erano. “L’anziano da fastidio perché ci ricorda che esiste la morte” conclude Torre “E loro si avvicinano a quel giorno. Ma sono anche portatori di sapere”. E ne abbiamo bisogno un po’ tutti.
Marco Gregoretti