La guerra d’Ucraina e la crisi energetica ripongono il tema degli approvvigionamenti delle fonti. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha ipotizzato, oltre al resto, un ritorno alle centrali al carbone. Nel 1996, quando lavoravo a Panorama, andai con il fotografo Maki Galimberti a farmi un giretto sottoterra. Precisamente al Sulcis, in Sardegna. Tra grisu e set, carbone e minatori, sindacati e il percorso sotterraneo che si chiamava viale Enrico Berlinguer, tra politica e tanta retorica, dopo 26 anni non sembra poi così datato…
Marco Gregoretti
Data Pubbl. 21/03/1996
Numero 0011
Numero Pag. 0072
Sezione REPORTAGE
Occhiello La vera storia dei minatori del Sulcis
Titolo VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA
Autore MARCO GREGORETTI fotografie di MAKI GALIMBERTI
Testo Un vento forte mette di traverso la pioggia battente e quasi impedisce di camminare. Fa un freddo terribile. E il paesaggio è lunare: piazzali e stradine di pietrisco e terriccio grigio, ogni tanto una piccola macchia nera disposta con geometrico ordine. Su questa distesa sconfinata si susseguono rulli trasportatori, impianti di trattamento minerario, mastodontiche rastrelliere, escavatrici supermoderne, gigantesche carrucole comandate elettronicamente per spedire ascensori carichi di gente a 500 metri sotto terra. E ancora: capannoni vecchi semiabbattuti vicino ai quali ci sono già quelli appena costruiti, palazzine ipermoderne per gli uffici… Siamo a Nuraxi Figus, Carbonia, Sardegna. Tutto, in miniera, sembra nuovo di zecca. Ma niente è in funzione: in teoria, quelle macchine potrebbero lavorare un milione 800 mila tonnellate di carbone all’ anno. Quel poco che si è estratto, 300 mila tonnellate in tutto negli ultimi 20 anni, è il risultato di corsi di formazione per minatori promossi dalla Regione in anni recenti affinché non andassero in rovina gli impianti. Qui, in pieno Iglesiente, terra una volta ricca di miniere di ogni tipo, oggi ricca solo di minatori, nel 1978 l’ Eni aveva rilevato il 60 per cento delle quote Egam della Carbosulcis, una società nata due anni prima per riprendere la produzione di carbone interrotta dall’ Enel nel 1971. Ma, dopo aver speso 846 miliardi per costruire le gallerie lunghe fino a quattro chilometri e il bunker degli uffici, per comprare i macchinari, dopo aver distribuito appalti seguendo gli italici criteri alla manuale Cencelli (si va dalla Torno alla cooperativa Cmc di Ravenna), il 2 luglio 1993 la Carbosulcis dà il ferale annuncio: “Sospendiamo tutto”. Quattro i motivi, paradigmatici del post boom: i fondi pubblici, cioè quelli racimolati tra i contribuenti, sono finiti; il carbone di Nuraxi Figus è sporco, contiene zolfo; quello che arriva dai paesi dell’ Est è migliore e costa meno; l’ Enel ha sospeso il progetto di una centrale a gas-carbone. Un mese dopo, il 9 agosto 1993, l’ accordo sindacale: 800 cassaintegrati su 950 dipendenti. Da più parti arriva un consiglio: l’ era delle miniere è finita, cominciamo a pensare a progetti alternativi. Non sia mai! Nella rossa e comunista, ora pidiessina Carbonia, costruita da Benito Mussolini nel 1930 (a Cortiana, un paese vicino c’ è perfino piazza Venezia), sopravvive l’ ultimo manipolo di minatori duri e puri. L’ ultimo scorcio di romanticismo preindustriale nell’ era dell’ elettronica. L’ elmetto rosso o giallo, purché lucido, è un simbolo: chi ce l’ ha lo tiene in automobile bene in vista. E’ una specie di lasciapassare. Uno status symbol che testimonia un’ appartenenza. E questo succede nell’ era di Internet che a pochi chilometri di distanza, nella Cagliari di Nicola Grauso, propone modelli di vita da terzo millennio. Due mondi che stanno litigando. L’ Unione sarda, il giornale di Grauso dove i redattori hanno Internet personalizzata secondo l’ argomento di cui si occupano, attacca i minatori e li rimprovera di arretratezza culturale. Loro, i minatori, rispondono accusando Antonangelo Iori, il giovane direttore (31 anni): “E’ di destra, di Forza Italia”. Iori replica e dice a Panorama: “Ma se sono simpatizzante di Rifondazione comunista!”. In realtà, il contrasto tra questi due mondi è solo apparente. Se c’ è qualcuno, infatti, che si è dimostrato consapevole di quali siano i risultati ottenibili con la potenza di fuoco dei mass media, soprattutto se televisivi, è proprio il minatore cassintegrato sardo. Mauro Saba, addetto stampa dei minatori, spiega che qualcosa l’ hanno ottenuto: “Il 22 gennaio scorso il governo, l’ Eni e la Regione si sono messi d’ accordo”. Giusto: l’ Eni esce e per la gestione transitoria vengono stanziati 70 miliardi che verranno amministrati dall’ Emsa, cioè dalla Regione. Giovedì 8 febbraio, all’ ora di pranzo, l’ accordo è stato ratificato in Regione. Si torna a parlare di impianto di gassificazione per trasformare il carbone in gas da riconvertire, nella vicina centrale Enel, in energia elettrica. Una pioggia di miliardi pubblici, circa 800, potrebbe bagnare la cordata vincente solo per l’ obiettivo di rimettere in funzione la miniera; mentre l’ intera operazione costerebbe circa 2.300 miliardi. Naturalmente i soldi pubblici fanno gola. Si sono consorziate l’ americana Destek (gruppo Dow Chemical), la tedesca Montan Consulting (gruppo Ruhrkohle) e le italiane Ansaldo, Techint e Sondel: il 29 marzo dovrebbero formalizzare alla Regione le loro proposte. Gli aspetti finanziari potrebbero essere affidati a due istituti stranieri: la Société générale e la Bank of America. Se sarà così, ci saranno posti di lavoro per 700 persone. Esulterà il Pds che tanto si è battuto, con il senatore Salvatore Cherchi in testa. Ma, se riprenderà il suono della sirena di Nuraxi Figus e della confinante Seruci, sarà contenta anche l’ associazione dei commercianti di Carbonia, controllata da Forza Italia: i minatori torneranno a frequentare i negozi. Grandi e piccole soddisfazioni in diretta. Scenografia e comparse Già da quando si varca il cancello di Nuraxi Figus si coglie un’ atmosfera molto particolare. Un’ atmosfera massmediologica: siamo in onda sui canali immaginari di quella che si potrebbe chiamare “Tele Sulcis”. E tutto sembra avere la cadenza millimetrica della fiction: anche i tralicci dell’ Enel saltano per aria appena arrivano le telecamere, come è successo il 27 maggio 1994. E’ come entrare in un lungometraggio dove scenografie, attori principali e comparse sono perfettamente organizzati. La scenografia è la miniera. Le comparse sono 800 cassaintegrati sine die (ma 150 sono da poco rientrati per la manutenzione).
Gli attori principali, invece, sono quell’ avanguardia di 70 minatori che hanno occupato prima i pozzi, poi l’ intera miniera, animato assemblee permanenti, fatto celebrare messe strappalacrime nel sottosuolo, chiamato le telecamere di Michele Santoro e di tutti gli altri per i Natali e i Capodanni giù, tra le viscere carbonifere. Ancora: viaggi a Roma vestiti come se avessero appena terminato un duro turno in miniera. E qui, davanti a Montecitorio, di nuovo telecamere, fotografi. Polizia che carica, politici come Massimo D’ Alema che fanno l’ autografo sul caschetto rosso di un minatore o come Silvio Berlusconi che, reduce dal successo elettorale, scendono tra loro a far promesse. Per non parlare di Oscar Luigi Scalfaro: ride nel suo gessato scuro e sta in posa insieme ai minatori stanchi e arrabbiati. O virtuali? Comunque dei veri geni della comunicazione. La sedia di Gianfranco Manconi, direttore, per l’ Eni, della miniera, è stata gettata dalla finestra in uno dei momenti più drammatici dell’ occupazione. Ed è ancora lì, pronta per essere ripresa dalla tv. La sera stessa i minatori che occupavano sono andati sotto casa di Manconi a prendere l’ auto aziendale: “Secondo noi non era più direttore. Doveva restituirla” raccontano i protagonisti. “Finiremo con il diventare degli attori” dice il minatore Luciano Macrì, in posa, con casco, cinturone, bomboletta Awer appesa, davanti al fotografo di Panorama e a un saluto con dedica scritto a pennarello dal regista Daniele Segre che tra loro ha girato il documentario Dinamite. Secondo Sandro Mereu, cassaintegrato con circa 900 mila lire al mese, alla Carbosulcis dal 1986 come addetto alla costruzione delle gallerie, la smania catodica non riguarda tutti. Dice infatti, mentre a bordo di una Uno bianca fa da guida a fotografo e giornalista di Panorama: “In questa occupazione (quella di tre mesi, prima della ratifica dell’ accordo, l’ 8 febbraio scorso, ndr), qualcuno si è rotto la schiena nell’ ombra facendo lavori di manutenzione, di pulizia, in cucina e magari a Natale ha ospitato in casa qualche bambino bosniaco o è andato in Friuli nei campi profughi di Cividale e Cervignano. Altri, invece, sono saltati fuori solo quando c’ erano le telecamere”. Intanto, come in un tour organizzato, illustra: “Quella rastrelliera serve a non tenere fermo il carbone. Ma è inutile… Lì, invece, c’ è il pozzo uno, quello è il pozzo due. Vedete quella cancellata chiusa con il lucchetto? E’ l’ ingresso della discenderia: l’ hanno costruita operai stranieri poi licenziati. Che tristezza. La miniera è una cultura: mio padre ci ha lavorato 35 anni. Mio nonno ci è morto. Il nonno di mia moglie anche…”. E lui, Sandro Mereu, ci vorrebbe finalmente andare. Non gli piace la qualifica di “minatore virtuale”. Ma cosa ci troverà in un lavoro dove dovrebbe passare la giornata pericolosamente sotto terra, con sbalzi di temperatura da un metro all’ altro anche di 10, 15 gradi? Con le polveri e la sorgente di acqua bollente? Con le pareti che, sotto la pressione della terra, rischiano di crollare? Con il grisou, un gas micidiale, che potrebbe esplodere? “Non farei nessun altro lavoro. Ma quale turismo, qui è impossibile. Hanno proposto fabbriche di racchette, campi da golf. Il ministro Vito Gnutti arrivò a dirci che la miniera poteva essere riconvertita in fabbrica di stuzzicadenti. Mi viene da ridere”. Il rituale del carciofo Intanto ha aperto la porta di un capannone: dentro ci sono gli armadietti e le docce. Pasquale Desogus, in Carbosulcis da 20 anni, fa appena in tempo a mettersi l’ asciugamano davanti. Ma, visto il fotografo sorride e dice: “Non sono molto fotogenico”. Ma sta fermo, in posa. Poi di corsa a vestirsi. E’ ora di pranzo. Nella bella mensa tirata a lucido dove qualcuno sta giocando a pinnacolo, è pronto da mangiare: penne al sugo e involtini di carne. Quando il desco volge al termine inizia il rituale del carciofo crudo: si sfoglia delicatamente fino a giungere al cuore. Se mangiato insieme a pezzettini di pecorino sardo ripieno di peperoncino piccante, è ottimo. A tavola si parla di politica e di sindacato. Tutti molto fieri: “Qui conta solo la Cgil. Siamo i più forti”. “In realtà” ribatte Luigi Manca, 35 anni, codino, orecchino, delegato sindacale, segretario della sezione Pds di Musei, un paese a 30 chilometri dalla miniera, “ci sono anche la Cisl, la Uil e un piccolo sindacato autonomo. Siamo pluralisti”. A Manca, non piace molto l’ agiografica interpretazione del minatore cara ai suoi commensali come Veliano Mereu, quello dell’ autografo di D’ Alema sul caschetto, fratello di Sandro. “Sono minatore per caso” dice Manca “farei volentieri un altro lavoro. Il problema è che qui non c’ è nulla: è il deserto. Anche per il tempo libero la situazione è drammatica: si gioca a calcio. Gioco a calcio. E poi?”. Ma quando, subito dopo pranzo, per una visita guidata nelle gallerie con giornalisti, inizia il rituale della vestizione da minatore, anche lui gioisce. E’ come se questo piccolo viaggio verso il centro della terra, un viaggio avvolto da rumori assordanti, tra le blatte e gli odori più svariati, tra cunicoli e sale pompe, tra trattori abbandonati e silos orizzontali, fosse carico di simboli. La galleria principale si chiama: Tracciamento Enrico Berlinguer. “Era venuto a trovarci pochi mesi prima di morire” ricordano Luciano Fanni e Antonello Mattana. Come le altre, la galleria dedicata al padre del compromesso storico è molto larga: “Le hanno costruite così per giustificare l’ acquisto di grandi mezzi diesel, mai usati”. Poi aprono una porticina di legno dove, sopra una donnina nuda disegnata con la carbonella, c’ è scritto: “Benvenuti in miniera”. Oltre l’ uscio c’ è quella stanzetta sotterranea con un tavolaccio di legno per terra, stravista in foto e in tv. Ridono e pensano ai bei tempi andati: “Ne abbiamo combinate davvero di tutti i colori: bloccato porti, aeroporti, strade. Abbiamo litigato con la gente. Siamo andati 20 volte a Roma. La polizia ci ha caricato. E tutto per lavorare qui dentro”. Già, perché? “Perché la miniera è come il mal d’ Africa”. O, tra miliardi annunciati e posti di lavoro promessi, come il mal d’ Italia.
MARCO GREGORETTI
SULCIS IN FUNDO
Ecco le date fondamentali della storia recente della Carbosulcis. 1966: L’ Enel rileva le miniere di Nuraxi Figus e Seruci dalla Carbosarda. 1971: l’ Enel ferma la produzione. 1978: subentra l’ Eni 1988: lavori di ammodernamento 1992: l’ Eni parla per la prima volta di chiusura della miniera. 2 luglio 1993: si sospende l’ attività. 9 agosto: 800 su 950 in cig. 10 maggio 1994: riparte la protesta. 25 maggio: Berlusconi incontra a Roma i minatori. 27 maggio: salta un traliccio dell’ Enel. 3 giugno: occupazione delle gallerie. 19 giugno: i minatori al raduno leghista di Pontida. 15 novembre: liquidata la Carbosulcis. 17 marzo 1995: via all’ asta. 9 novembre: ottava occupazione. 20 dicembre: i minatori a Roma. Carica della polizia. 25 dicembre: Natale in miniera. 22 gennaio 1996: accordo governo-Eni-Regione Sardegna per la gestione transitoria. 8 febbraio: l’ accordo è ratificato. 12 febbraio: cessa l’ occupazione. 150 minatori rientrano per la manutenzione.
M.G.