EVADERE DAL BECCARIA, L’EX CARCERE MINORILE MODELLO
Tino Stefanini, 70 anni, 47 passati in cella e ora ai domiciliari, che il carcere lo ha conosciuto da minorenne e da maggiorenne, dice, lapidario a Libero, scherzando, ma mica tanto: “Perché sono evasi, allora?” (vedere intervista a pagina…)In effetti, tre su sette, uno di loro convinto dai genitori, sono volontariamente rientrati in carcere poche ore dopo la fuga. Gli altri quattro li stanno cercando le forze dell’ordine. E non è escluso che li scovino nascosti da qualche amico già prima dell’arrivo in edicola del nostro giornale. La fuitina natalizia dei sette ragazzi, (cinque italiani di Milano, Monza, Pavia e Como, uno nato a Miano di origini marocchine, uno marocchino e uno dell’Ecuador) “ospiti” dell’Istituto di pena minorile Cesare Beccaria, per quasi la metà di loro è dunque durata giusto il tempo di spacchettare qualche regalino sotto l’albero di casa. O, visto che erano in sette, di fare una partitella di pallone sei più il portiere. Erano tutti in carcere in attesa di giudizio per furti e per rapine. Sono riusciti a scappare approfittando di una falla ( si parla di un’asse di legno marcia), durante l’eterno cantiere di ristrutturazione (iniziato almeno15 anni fa) dell’ex prigione modello. I fascicoli sono stati aperti sia dalla procura minorile che da quella ordinaria perché due dei fuggitivi sono maggiorenni. La domanda di Stefanini, in effetti, ha un senso: quale è stato il vero scopo della comitiva turisti fai da te? C’è un collegamento con il fatto che poco dopo l’evasione, altri detenuti abbiano dato fuoco ai materassi delle loro celle e quattro operatori di polizia penitenziaria siano finiti all’ospedale? Si inquadra in un prodromo che sta per tramutarsi in una situazione bollente in tutte le carceri italiane? Il timore è anche del Ministero degli interni. Intanto, mentre stiamo per andare in stampa, si è appresa la notizia di bottiglie incendiarie lanciate contro la Casa circondariale romana di Rebibbia. Staremo a vedere…
Forse senza neanche saperlo, oppure ben consapevoli, i magnifici sette hanno acceso di nuovo una luce sulla fine che ha fatto il Beccaria, l’istituto famoso in tutto il mondo per essere stato costruito, tra gli anni 50 e 60, per cercare di dare un senso alle pretese riabilitative e rieducative, costituzionalmente previste, delle prigioni italiane, evitando di ricorrere agli obbrobri british raccontati dal film cult di Stanley Kubrik Arancia Meccanica. Oggi al Beccaria non c’è neanche un responsabile di riferimento. L’ultimo che ha avuto sarà probabilmente capolista del Pd alle prossime regionali in Lombardia. Eppure la decisione che Cosima Buccoliero, 54 anni, direttore di successo umanitario del carcere di Bollate assumesse, in accoppiata, anche l’incarico di governare il Beccaria, sembrò uno di quei segnali forti per riportare il carcere minorile milanese agli antichi fasti. Fu proprio lei, in una lunga intervista al progetto editoriale Sapiens-Luz, a denunciare la situazione drammatica in cui versava l’istituto: “È un edifico in ristrutturazione (proprio per più che raddoppiarne la possibilità ricettiva ndr) e mancano gli spazi. La capienza è di 33 persone e oggi i ragazzi sono 43”. Che nel frattempo sono ancora aumentati. “I detenuti sono costretti a vivere in spazi piccoli e stretti” disse ancora Buccoliero “Capisco la loro fatica quotidiana che va moltiplicata per cento rispetto a quella che fanno i ragazzini che vivono fuori. Al Beccaria sono detenuti giovani con i quali spesso è difficile entrare in relazione, sembra paradossale, ma con gli adulti è tutto più semplice.”. Un discorso emotivo che tocca, però, anche l’altra parte che vive il carcere: la Polizia penitenziaria. Il sindacato Sappe da tempo denuncia carenze e problematiche, come il sovraffollamento con “ospiti anche di 25 anni e l’aumento in progressione geometrica di aggressioni agli operatori, di sommosse e di evasioni. Tipo quest’ultima, che, in qualche modo, era annunciata”. Insomma, ora al Beccaria stanno male tutti: controllati e controllori. Le ragioni sono strutturali. Ma non solo. Il sesto rapporto Antigone sugli Istituti di pena in Italia ci offre uno scenario desolante. A partire dall’incipit: “Non è più un modello. E colpisce il contrasto tra il quartiere circostante in rapidissima espansione e un istituto ancora alle prese (dopo 15 anni) con una ristrutturazione eterna e di cui non si vede la fine”. Un cantiere a cielo aperto, dove il centro di prima accoglienza è diventato reparto d isolamento per Covid, gli spazi nei pressi dell’infermiera sono di fatto celle chiuse e più piccole di quelle ordinarie, dove vengono tenuti ragazzi malati ma anche alcuni carcerati spostati per motivi disciplinari o persino utilizzate per carenza gestionale. “Le tante attività” si legge ancora nel rapporto “faticano a tradursi in percorsi reali di inserimento lavorativo”. Siamo lontani davvero dai tempi in cui il bel Renè e alcuni altri membri della banda della Comasina, vennero trasferiti dal vecchio Beccaria di piazza Filangeri, di fronte a, carcere di San Vittore, a quello nuovo di via Taeggi 20. “Passammo dallo schifo a un resort” raccontano oggi. Alla fine la “piccola evasione” o, come già qualcuno la chiama l’ “evasioncina”, non è stata così banale come sembra.
Marco Gregoretti
L’INTERVISTA A TINO STEFANINI
Ribadisce a Libero: “Davvero, ma che cavolo sono scappati a fare se poi sono rientrati subito?”. Tino Stefanini, 70 anni, di cui 47 anni passati in carcere, ora è agli arresti domiciliari: può uscire due ore al giorno, la mattina. Con Renato Vallanzasca, Osvaldo Monopoli, Rossano Cochis, Antonio Colia, detto Pinella, è stato punta di diamante della cosiddetta Banda della Comasina. Erano in 39. Oggi sono in tre sopravvissuti, Vallanzasca, Monopoli e lui. Gli altri? Tutti morti. E non certo da anziani. Stefanini al Beccaria ci è finito la prima volta nel 1969, a 15 anni. “Ci trasferirono dalla vecchia struttura di piazza Filangeri, brutta, sporca, angusta, a quella di via Taeggi 20. Ci sembrò di arrivare in un albergo”. Tino scava nei ricordi di quasi 54 anni fa e li racconta al nostro giornale,
D. Allora, quale fu il primo pensiero dopo in cella, nel nuovo Beccaria?
R. Che era facile scappare. Infatti sono scappato due volte…
D Oddio, non intendevo chiederle questo. Però mi spieghi. Perché era possibile evadere senza molte difficoltà?
R Beh, c‘era un bel campo da basket. I ferri dei canestri avevano le rotelle. Si potevano usare per scavalcare il muro
D. Ingegnoso e semplice nello stesso tempo..
R Sì, ma c’erano anche altri sistemi. Perlomeno due…
D Quali?
R Il primo era il buco in un grata: si passava e via!!! Oppure quando lavoravamo alla meccanica con il crick potevamo allargare le sbarre, che non erano molto massicce
D Ora può raccontare ai nostri lettori come era la vita al Beccaria che ha conosciuto lei?
R Niente a che fare con la vecchia sede. Dalla possibilità di avere le sigarette in cella e non più razionate, cinque al giorno, a come erano accoglienti le camerette…
D Le camerette?
R Sì, non erano celle brutte sporche e fredde. Ma delle stanzette con le porte di legno e senza sbarre. Con un calcio la buttavi giù.
D E le guardie carcerarie?
R Non indossavano alcuna divisa. Giravano in borghese. Non avevi l’idea della repressione. E poi c’erano tanti educatori. Ricordo che con uno di loro, si chiamava Ranieri e oggi fa l’avvocato insieme al figlio, organizzavamo tornei di ping pong. In palio venivano messe le sigarette. Il cappellano era Don Giorgio, che in seguito credo sia diventato il capo di tutti i cappellani d’Italia. Non mi ricordo il nome del direttore. Mi sembra Tega
D Come passava la sua giornata al nuovo minorile, l’adolescente Tino Stefanini?
R. Il Beccaria era dotato di un campo da calcio quasi perfetto. Io giocavo bene a pallone. Però non nutrivo le mie giornate soltanto di sport. Avevo la possibilità di coltivare diversi interessi. Anche culturali…
D. Nel senso che leggeva molto?
R Volendo sì, visto che all’interno c’era un vera scuola con le classi. Più che altro, però, scrivevo (Tino Stefanini con la penna ci sa fare. Alla fine del 2019 ha pubblicato con Giorgio Panizzari, tra i fondatori del Nap poi entrato nelle BR, Figli delle catastrofi. Ribelli e rivoluzionari. Milieu Edizioni. Ndr), dipingevo e facevo i mosaici. I miei lavori venivano appesi in giro per il carcere. Mi piaceva anche suonare sia la chitarra che la batteria. Nel complesso che avevamo messo su in carcere ero il batterista. Mi dicono, però, che ora è tutto cambiato…
D Leggeva, dipingeva, scriveva suonava, giocava a basket e a pallone.. . Però è evaso lo stesso
R. Certo. Due volte. Avevo 16anni e facevo lo “studente”. Poi sono diventato “universitario” nel senso che sono finito a San Vittore. E ho conosciuto il carcere degli adulti. Da dove sono evaso altre due volte: ad Alessandria e a Fossano. Ma questa è un’altra storia.
Marco Gregoretti