Da mercoledì 13 maggio 2015 esce settimanalmente in edicola, al prezzo di copertina di un euro, Quarto Grado Magazine, la versione cartacea della trasmissione condotta da Gianluigi Nuzzi con Alessandra Viero su Rete Quattro. Siria Magri, direttore della rivista e del programma tv, mi ha affidato il compito di raccontare cold case al femminile. Donne in nero è il titolo della rubrica. Questo è il testo del primo caso che ho proposto, su Quarto Grado Magazine, mercoledì 20 maggio.
M.G.
Il mistero sta anche nella sua innocenza. Sempre assolta, sette volte, sempre più bella, mai in prigione. Eva Edit Mikula, per l’Interpol Eva Mikula, per il Sismi (il servizio segreto militare diventato poi Aisi) Edit Mikyula, aveva 17 anni quando all’inizio del 1992 a Budapest conobbe, restandone affascinata e imprigionata, il carisma criminale e violento di Fabio Savi, di 15 anni più grande di lei, l’unico non poliziotto della terribile banda della Uno bianca (gli altri: Alberto e Roberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli erano tutti agenti della Polizia di Stato): 24 morti e 102 feriti tra il 1987 e il 1994 in Emilia Romagna e nelle Marche. Quando alle fine del 1994 la giovane cameriera (si disse anche che faceva la ballerina in un night), nata a Budapest il 18 agosto 1975, sotto il segno del Leone, fu arrestata al confine con l’Austria, sembrò a tutti scontato che lei avesse avuto un ruolo importante all’interno della banda. Quantomeno perché era la donna del capo militare che per lei aveva lasciato la moglie. Fu sospettata di essere la pedina di un traffico di armi, perfino di mercurio rosso, perciolosa sostanza chimica, dai paesi dell’Est, venne accusata di aver fatto il sopralluogo per due delle rapine sangunarie, a Pesaro dove fu ucciso Ubaldo Paci e a Zola Predosa dove fu freddato il giovane Massimiliano Valente perché aveva visto troppo. Con queste imputazioni fu processata e assolta nonostante le richieste dei pubblici ministeri fossero state senza sconti, come i dodici anni per la morte di Valente.
Ma, con l’aiuto del suo avvocato storico bolognese, a cui ancora oggi è molto legata, Antonio Cappuccio, convinse i giudici della sua innocenza. Li convine allora e li ha convinti anche due anni fa, nell’ ottobre del 2013 a Rimini durante il processo a Tomas Somogyi considerato dagli inquirenti l‘armiere della Uno bianca. Si presentò quella mattina fasciata da un abito nero, senza nascondere la sua bellezza dell’est, e rispose a tutte le domande del pubblico ministero Paolo Gengarelli ricordando le trattative tra Savi e Somogyi per l’acquisto dei fucili mitragliatori Kalashnikov, delle pistole Feg e della bomba a mano che fu consegnata nell’estate del 1993 al confine tra l’Ungheria e l’Ucraina. “Sì” confermò Eva “Savi e Somogyi parlarono anche di traffico di mercurio rosso…”. Il sette gennaio del 2014 la ex “donna del capo” tornò in tribunale, questa volta come imputata, con Somogyi: assolta. “Il punto vero” dice a Quarto Grado magazine l’avvocato Cappuccio “è che Eva Mikula è la chiave di volta che ha permesso di sgominare la banda della Uno bianca e di fare luce su quasi tutti i misteri di quella terribile vicenda”. La verità processuale, dunque racconta una storia diversa da quella dell’immaginario collettivo. Non una criminale ma una ragazza impaurita e senza permesso di soggiorno, che per due anni è stata soggiogata, nella casa di Torriana, al confine con le Marche, da un efferato bandito. Sarà vero? Oppure avevano ragione i servizi segreti italiani quando in una informativa paventano il dubbio che Eva Edit Mikula mentisse sull’età e fosse legata a un colonnello dell’intellgence dell’Est o che fosse perfino un’altra persona? Una mano al mistero la diedero le dichiarazioni di un compagno di cella di Fabio Savi che gli avrebbe confidato:
”Eva Mikula doveva morire: non era affidabile. Dovevamo ucciderla”. Oggi, dopo le tante peripezie della vita che l’hanno vista anche comparire nella agenzia di spettacoli a luci rosse Diva Futura di Riccardo Schcicci, andare in sposa a un giovane poi finito in prigione per rapina, è lei stessa a considerarsi una vittima dei fratelli Savi e dei loro complici. Ne è così convinta che ha richiesto di far parte dell’Associazione vittime della banda della Uno bianca. “Se i colpevoli sono stati condannati all’ergastolo” ha scritto Eva in una lettera alla Associazione “è stato in gran parte per merito mio. Sono passati 20 anni da quando è stata fatta luce sui misfatti della Uno bianaca. Io ricordo tutto, come fosse ieri: stavo tra la vita e la morte, come nei due anni precedenti di convivenza, picchiata e segregata nelle mani dei poliziotti killer” . È sincera questa bella e affascinante signora, ora compagna di vita di un immobiliarista romano da cui ha avuto due figli, una femmna e un maschio? E perché, nonostante la legittima voglia di essere lasciata in pace, si mette sotto i riflettori con una richiesta così forte e difficile? Per adesso ha risposto Rosanna Zecchi, presidente della Associazione :”Una richiesta che non sta in piedi”. Ma Eva, ne siamo certi, non mollerà.
Marco Gregoretti