Professori di giornalismo? Hanno paura della loro ombra. Figuratevi delle verità sul rapimento e la morte di Aldo Moro
Quando tocchi certi tasti succede di tutto. Anche che un professore, o sedicente tale, di giornalismo scriva post sgrammaticati, sarcastici violentemente denigratori verso colleghi (nello specifico me) che da 35 anni si fanno un coso così’ per cercare, trovare, verificare e scrivere storie combattendo a volte contro i conformismi, a volte contro la stupidità. Spesso contro entrambe. Bene, uno di questi tasti, uno dei tabù’ che non si può’ secondo lorsignori mettere mai in discussione, è “il rapimento e l’omicidio” dello statista democristiano Aldo Moro, avvenuto (ufficialmente) tra il 16 marzo e il nove maggio 1978. Oramai questi professori, o sedicenti tali, di giornalismo (quindi giornalisti per lo più’ frustrati) si sono talmente bruciati il cervello a pensare, parlare e scrivere solo di o contro Silvio Berlusconi, che hanno esaurito i neuroni e non riescono più’ a ragionare su altro. Ecco la storiella.
Sul mio sito (marcogregoretti.it) ho pubblicato un breve articolo che accompagna un documento conservato da un agente del controspionaggio italiano, per la precisione il sardo Antonino Arconte, sigla G-71 (G sta per Gladio, 71 sta per l’anno di ingresso nell’organizzazione della Nato), che mette in forse perfino la data di quello che resta il mistero dei misteri italiani. Arconte fu mandato, secondo questo documento, a Beiruth per consegnare ordini e materiali “utili alla liberazione di Moro”, il sei marzo 1978, cioè 10 giorni prima del sequestro. “E’ palesemente un falso”, concionano, per la verità uniche voci isolate, questi sedicenni professori di giornalismo. “E chi era quello che si aggirava nei palazzi della politica? Un sosia?” portano come argomentazione probante della loro sagacità. Poveretti. Non bastano le perizie, non bastano le innumerevoli cause vinte dal detentore di quel pezzo di carta contro tutti i detrattori, non basta la brutta fine dei suoi colleghi che non vollero rendere nota quella “lettera di incarico” (uno fra tutti il colonnello Mario Ferraro, agente del Sismi “suicidato” nel 1995), non basta la riabilitazione avuta da G-71 a cui, per colpa di quel documento, sono successe cose terribili. Non basta neanche che la prima volta che lo pubblicai in un giornale (GQ, anno 2001) Andreotti e Cossiga si precipitarono nel principale talk show televisivo italiano per cercare rocambolescamente di smentirlo insistendo nel dire che le Brigate Rosse “erano un fenomeno unicamente italiano”, per poi smentirsi di li a poco. Non basta che alla fine lo stesso Cossiga dovette ammettere che G-71 era stato uno dei migliori, nonostante avessero cercato in ogni modo di cancellarlo e di “terminarlo”. Non basta che questo pezzo di storia di intelligence si trovi nel libro autobiografico-salva vita dell’agente in questione (Antonino Arconte L’Ultima Missione di G-71- Mursia editore). Non basta, infine che il Nsa americano abbia casse di documentazione portata a Washington da G71, ritenuto ultra attendibile anche dopo averlo sottoposto a giorni e giorni di Truth machine. No, il quarto di neurone rimasto nella zucca di questi giornalistucci da salotto radical-chic, non consente loro di capire il significato reale di quel documento, di quella data, di quel viaggio a Beiruth. Per un motivo banale: non sono giornalisti (e io non so davvero chi e che cosa siano in realtà) e quindi non ricordano o non vogliono ricordare due o tre fatterelli di quegli anni che renderebbero palese a un bambino perché sotto quel foglio, prima della firma, ci sia una data così’ strana. Fate una pensatina “professori di giornalismo”, magari ci arrivate.
Marco Gregoretti