Speranze ridotte, molto ridotte. Il tempo non lavora a favore delle cinque persone a bordo del Titan, il sommergibile che si è immerso nei mari a nord del Canada per un giro estremo intorno al relitto del Titanic, a 3800 metri di profondità e di cui non si sa più nulla da lunedì scorso, 19 giugno. In teoria l’ossigeno a disposizione dei passeggeri è finito questa mattina alle cinque. Secondo previsioni più ottimistiche potrebbe durare fino alle 11. La vita, dunque, di Hamish Harding, miliardario britannico, del ricco magnate pakistano Shahzada Dawood, di suo figlio Suleman, di Stokton Rush, ad di Ocean Gate, la società che gestisce il Titan e di Paul-Henry Nargeolet, conduttore del sommergibile, che tutti chiamano “Mr Titanic”, è appesa a un filo. Il mezzo sospiro di sollievo che si era potuto tirare quando le apparecchiature hanno individuato rumori ritmati provenienti dal fondo dell’Oceano, tali da poter far pensare a una presenza umana, è stato spezzato dal realismo dell’ammiraglio John Mauger, comandante della Guardia costiera. “Non conosciamo la fonte di questo rumore” ha detto Mauger “intorno al relitto c’è molto metallo e si muovono diversi oggetti”.
Peraltro a 4mila metri sott’acqua, dove sabbia e fango annullano quasi la visibilità, è praticamente impossibile attivare moduli di soccorso rapido. “Intervenire a quelle profondità” dice a Libero l’ammiraglio in riserva Bruno Cocciolo, che per cinque anni ha comandato gli incursori della Marina Militare italiana, “è complicato, molto complicato. Qualora fosse appoggiato sul fondo, poi, bisognerebbe organizzare il recupero ad alta profondità. I tempi mi sembrano molto stretti”
Poveri davvero. Panico, paura, claustrofobia, il respiro che si accorcia… Provare a immaginare quello che i cinque passeggeri del Titan stiano vivendo in queste ore, provoca ansia, angoscia. Come racconta la collega Rita Cavallaro al quotidiano on line L’identità, rivivendo la drammatica esperienza del padre Vincenzo, quando nel novembre 1969 il sommergibile Calvi, a bordo del quale si trovava insieme al resto dell’equipaggio, ebbe un incidente: rimasero “imprigionati” per 15 ore. Il ricordo di Vincenzo Cavallaro rende l’idea: “Eravamo in trappola, senza soluzioni e si scatenò il panico. Ho visto uomini sbattere la testa contro le pareti, altri distesi a terra a piangere disperati, c’era chi urlava, chi correva da una parte all’altra. E nel mentre l’ossigeno si consumava. Mi distesi a terra… mi ero arreso”. Ecco come stanno, adesso, nel Titan. Speriamo che, come Cavallaro, anche loro possano raccontarci la terribile avventura. Intanto ci si interroga su che cosa sia successo. Anche alla luce delle rivelazioni dei media americani: David Lochridge, direttore delle operazioni marittime OceanGate, aveva sollevato preoccupazioni sulla sicurezza operativa. Nel 2018 fu licenziato. E poi trovò un accordo extragiudiziale.
Sulla dinamica, nessuno ha ancora spiegato nel dettaglio quali eventi, lunedì 19 giugno, avrebbero potuto intralciare il viaggio di Titan giù, a tante leghe che neanche Jules Verne avrebbe immaginato così drammatiche. La lunga esperienza in acqua fa dire a Cocciolo, mentre parla con Libero: “Il sottomarino scomparso è in possesso di sistemi di sicurezza ridondanti, tra cui uno di riemersione automatica con galleggianti a sganciamento di zavorra. Potrebbe essere già in superficie, ma lontano dalla nave appoggio e con le comunicazioni radio satellitari compromesse. È come cercare il classico ago nel pagliaio”. Quando l’ammiraglio in congedo immagina i possibili scenari che hanno causato il black out, vengono i brividi. “Se non è riemerso” dice infatti Cocciolo, “allora, è stato vittima di un evento catastrofico: bloccato nel relitto, frana subacquea, correnti sottomarine, calamaro gigante, per citarne alcuni. Se invece è successo qualche cosa in cabina o all’interno dello scafo, come un cortocircuito, un incendio, la mancanza di ossigeno, teoricamente avrebbero dovuto scattare i sistemi automatici di sicurezza e il mezzo sarebbe dovuto riemergere senza l’ausilio umano”.
Marco Gregoretti