Nel 2009 per una casa editrice che pubblica giornali economici scrissi una brevebiografia non autorizzata di Sergio Marchionne, ad di Fiat Spa. Il libro uscì più volte allegato alle testate di quel gruppo e ha avuto una buona diffusione. Non a tutti, naturalmente, é piaciuto. Ma, tra critiche, invidie e apprezzamenti, quel che conta è che nessuno ha potuto smentire ciò che ho scritto. Qui di seguito vi propongo il primo capitolo: è un breve racconto del Marchionne privato. Forse si possono intuire le ragioni recondite di una certa sua durezza e del suo smisurato senso della semplicità famigliare. Buona lettura, se ne avete voglia
Marco Gregoretti
Quel bambino cicciottello, con i capelli ricci e gli occhiali, a cui si impartiva una educazione sana e rigida, che giocava a pallone non troppo bene e frequentava l’azione cattolica, aveva una caratteristica che lasciava di stucco i suoi insegnanti: faceva i conti a mente e a velocità supersonica. La professoressa Di Risio, della scuola media Vicentini di Chieti, auspicava per quel ragazzo un futuro all’altezza delle sue capacità. È per questo che chiese un incontro al padre, Concezio Marchionne, maresciallo maggiore dei Carabinieri vicino alla pensione. “Signor Marchionne” disse la professoressa “Lei deve fare di tutto affinché suo figlio Sergio intraprenda studi adeguati: ha molte capacità, sarebbe un peccato non coltivarle, non indirizzarle nel modo migliore”. Per un Carabiniere, classe 1915, uno di 11 tra fratelli e sorelle, nato a Cugnoli, nel pieno dell’Abruzzo duro e sannita, ce n’era abbastanza per decidere di affrontare quel sacrificio. Tirare un po’ la cinghia per vedere felice suo figlio? Per dare un’istruzione adeguata a Sergio? E per cambiare vita dopo la pensione? Non era certo l‘eventualità di cambiare, di muoversi che lo spaventava: come militare dell’Arma era abituato al nomadismo in patria. Nel 1947 era stato trasferito a Gorizia a “difendere” i confini dall’invasione comunista. In quel periodo conobbe sua moglie, anche lei per nulla intimorita dal peregrinare portandosi dietro lo stretto indispensabile. Maria Zuccon, nata a Pola nel 1925, infatti, era una profuga istriana cacciata dalla sua città per mano dei soldati di Tito. Dai comunisti, insomma. Quando Concezio tornò in Abruzzo fu ben contenta di seguirlo a Chieti dove si stabilirono in un piccolo appartamento di via Sant’Agata. Abitavano lì quando il 16 giugno 1952 nacque Sergio che guadagnò i primi galloni di autonomia frequentando il vicino asilo Sant’Agostino, in via Galliani. A Gorizia Maria era arrivata insieme a sua sorella Anna che sposò un amico di Concezio con il quale si trasferì presto a Toronto. Nel quartiere Saint Claire, vicino a Little Italy, aprirono una piccola attività di confezioni: una merceria che affittava anche abiti da sposa: un business molto redditizio che costituì una consistente fonte di entrata per la famiglia. Dopo quella chiacchierata con la professoressa del figlio a Concezio venne, dunque, l’idea di emigrare nel nord America con tutta la famiglia. I figli, Sergio e Luciana, avrebbero di sicuro avuto più opportunità in Canada e la moglie sarebbe stata molto contenta di vivere vicino alla sorella, cui era molto legata. Ricominciare, soffrire in silenzio e proporsi obiettivi giorno dopo giorno in qualche modo faceva parte del Dna della famiglia Marchionne, osmosi riuscita al meglio tra la determinazione abruzzese e l’indifferenza al dolore e alla fatica dalmata. Così fu organizzata la partenza: Concezio, Maria, Sergio e Luciana partirono per Toronto per raggiungere zia Anna.
Se l’attuale numero uno di Fiat aveva già da piccolo il talento dei numeri e dell’organizzazione, la sorella era un fulmine nelle materie umanistiche. Per tutto il liceo classico ebbe la media del 10 e a 31 anni era già docente di Storia antica e di Letteratura italiana all’Università di Toronto . Ma una terribile malattia la portò via l’anno dopo. Gli amici di Sergio sanno che questo è il grande dolore della sua vita. E una delle chiavi di lettura per cercare di cogliere l’essenza caratteriale del grande manager: ironico come suo padre e determinato come la mamma, secondo chi lo ha visto crescere. Ma anche bisognoso di affetto, soprattutto di quello famigliare. L’attaccamento all’Abruzzo e alla grande famiglia-clan che annovera una sessantina di cugini, gli ricordano, mentre conduce pesanti trattative con big manager internazionali, la semplicità delle cose che contano.
Quando, quattordicenne, Sergio Marchionne arrivò in Canada aveva appena finito la terza media. L’adolescente strappato dalla terra d’origine, dai cugini, dagli amici di Chieti e di Pescara, dai compagni di scuola e di parrocchia cominciava una nuova vita in periferia, a Toronto, North York, Winter Green Avenue. I vicini di casa lo ricordano chino dentro il cofano di una Fiat 124 bianca, la sua prima auto scalcagnata e con il motore capriccioso. Aveva sedici anni, in America la patente si prende a quell’età. Andava a pesca, si faceva consigliare su tutto dalla sorella più grande di poco, ascoltava musica classica e le canzoni di Fabrizio De André forse proprio per quella dedizione del cantautore genovese ai girovaghi e ai migranti. In casa parlavano italiano, ma lui cominciava a pensare in inglese e rapidamente assimilava i connotati mentali del modo di fare e di essere dei canadesi. Apprezzava la praticità senza fronzoli della cultura anglosassone, ma conservava gelosamente la sua affettività italiana. Più tardi raccontò che ci mise qualche anno prima di sentirsi tranquillo con la lingua inglese. Ma appena acquistò sicurezza e spigliatezza la sua vita sociale diventò molto più intensa. Intervistato da Mario Calabresi, neo direttore della Stampa, ha detto: “Sono cresciuto parlando un inglese con un marcatissimo accento italiano. Ci ho messo sei anni a perderlo. Ma sono stati sei anni persi con le ragazze.” Quando suo padre nel 1984 morì il futuro grande manager lo sostituì come segretario alla guida della sezione canadese della Associazione Nazionale Carabinieri che Concezio aveva fondato a Toronto nel 1973 e che tuttora è intitolata al ”maresciallo Maggiore Concezio Marchionne”. Mantenne quella carica fino al 1992. Ogni mercoledì e ogni venerdì andava nei due locali dell’associazione dell’Arma in Islington Avenue nel quartiere Woodbridge, agglomerato realizzato negli anni Settanta dagli italiani che a poco a poco erano usciti dagli stenti e dall’isolamento. L’associazione era stata una seconda casa per Sergio, ragazzo piuttosto introverso: nei tavolini dove si era impratichito con il gioco delle carte, passione che non ha mai smesso di coltivare, aveva imparato a conoscere e ad amare suo padre che era un tipo piuttosto infiammabile, soprattutto se alle carte, materia che conosceva piuttosto bene, perdeva. I testimoni di allora ricordano il contrasto piacevole: un papà arrabbioso, un figlio che, invece, restava calmo anche in caso di sconfitta. Immerso nella sua vita canadese Sergio, dopo aver essersi diplomato al Saint Michael’s College School, si portò a casa tre lauree, in filosofia, in economia e in giurisprudenza, stando sui libri tutta la notte e contribuendo al menage famigliare lavorando d’estate come cassiere part time alla Union Credit di Toronto. La sua irresistibile ascesa, iniziata alla Deloitte & Touche in Canada, fu indirizzata, dunque, da tre punti fermi a cui non ha mai più rinunciato: i Carabinieri, la famiglia unita, lo spirito di sacrificio. Sbaglierebbe, quindi, chi con il passare degli anni e l’accavallarsi degli straordinari successi manageriali di Sergio Marchionne, perdesse di vista il nucleo duro del suo carattere sannito-croato. E sbaglia chi si è dimenticato della sua nascita abruzzese e del distillato di appartenenza famigliare che sorseggia da quando è nato. Insomma se dici Marchionne dici Abruzzo. Il legame con la sua terra d’origine non si è mai interrotto. Paolo Sablone, 54 anni, assicuratore, scaltro politico democristiano di Chieti -eletto consigliere per una decina d’anni per partiti di centro come l’Udc, più volte delegato del sindaco per Chieti-scalo, 350 preferenze, “tante” dice “per la nostra cittadina”- è cugino primo dell’ad di Fiat: sua madre Ermelinda è sorella di Concezio. “Sergio non ci ha mai dimenticati. Anzi. Veniva a trovarci anche dal Canada. Sembra strano: aveva già allora un forte interesse per le automobili italiane. Gli piaceva correre su una Fiat 124 sport. Partiva per Bologna: due ore e mezza con il piede pesante sull’acceleratore. Quello non si ferma mai, è veloce nel sangue. Chissà dove arriverà. Ma gli italiani prima o poi se lo lasceranno scappare. Mi sa che siamo lì lì”. Quando illustra agli amici le ragioni dei suoi timori per il ritorno all’estero dell’ad di Fiat sa benissimo, da fonte diretta, anche se non ne può parlare, che c’è il colosso bancario Ubs in agguato. La notizia in quei giorni è nota a pochissimi. Ma alla famiglia non si nasconde nulla. “Noi in Italia non sappiamo mai tenerci i talenti. Scappano sempre”. Fu ben contento “Paolone” (Paolo più Sablone uguale Paolone) di tirare un sospiro di sollievo quando Sergio decise di rimanere al Lingotto e di accettare solo la carica di vice presidente della banca svizzera: “Sergio resta. E rilancerà….Certo che se accettasse le profferte di scendere in politica rimetterebbe a posto l’Italia. Ma mio cugino non lo farà mai”. Sablone ha una giacca carta da zucchero, la camicia bianca e una cravatta regimental rosa. È simpatico, spiritoso e insinuante come il più stereotipato dei politici italiani e, naturalmente, riceve le persone nelle salette del centralissimo caffè Vittoria. Difficile immaginare che sia parente stretto di un supermanager silenzioso e concreto. Eppure non solo lo è, ma è perfino protettivo nei confronti del cugino “torinese”. Anche nel chiarire, siamo ancora nel 2007 e al governo c’è Romano Prodi, l’insinuazione politica: “Io non so niente. Ma mi sa che qualcuno ci ha provato a contattarlo. In Italia si vota sempre… A me non dispiacerebbe perché Sergio è un italiano vero, un patriota che ama l’Italia e non capisce come mai in questi anni ci siamo così rincoglioniti. Ci soffre quasi. Tutti lo citano perché non si mette quasi mai la cravatta e preferisce il maglione a girocollo. Ma c’è qualcuno che s’è accorto che si fa cucire sul polso del golf un piccolo stemma tricolore? Vorrà dire qualche cosa. O no?”. In questa campagna elettorale per le votazioni del 6 e 7 giugno 2009 Sablone è molto indaffarato e, colto da impeto patriottico, corre con il PdL che si è alleato con l’Udc (“perché in Abruzzo senza Udc non si va da nessuna parte, visto che raccoglie almeno il 6-7%”), ma non ha perso i contatti con casa Marchionne. “Sergio è molto stressato. Dorme praticamente in aereo. E non è riuscito a venire ai funerali di mia mamma che è morta un me se fa (ad aprile 2009, ndr). Ci ha sofferto molto: sua moglie mi ha chiamato dalla Svizzera e siamo rimasti un’ora al telefono a parlarne. Quella grande corona di fiori che Sergio mi ha mandato con Interflora per me ha un significato enorme: nonostante il suo volare da New York a Berlino a Torino a Parigi ha trovato il tempo per pensare a me e a mia madre”. Il gruppo Marchionne & co in qualche modo è un clan dove sono tutti legati, ma capaci di restare al proprio posto. Anche il capo della Fiat si adegua: nella famigliona forse la parola che conta di più è quella del cugino anziano, Luigi Falasca, 65 anni, imprenditore figlio di un’altra sorella di Concezio Marchionne. A Falasca dunque si è rivolto Sergio quando sua madre Maria, che da tempo avvertiva nostalgia per l’Abruzzo, aveva espresso il desiderio di tornare. E lo ha fatto di persona, nel 2007, durante una delle “scampagnate” domenicali guidando da Torino a Pescara la sua Ferrari Scaglietto blu, o la Alfa 159 nera truccata e ribassata della sua guardia del corpo, incontrando il cugino Falasca a pranzo in uno dei suoi ristoranti preferiti: Marechiaro da Vittorio, dei due soci Bruno Micomonico e Bruno Luciani. Il mandato di Falasca era quello di trovare un attico di duecento metri quadrati con posto auto e vista sul mare. Esattamente come quello di fronte al ristorante. Marchionne lo aveva visto nel 2007 dopo un’altra mangiata di chitarrine allo scoglio, tipica pasta abruzzese tirata su forme di legno attraversate da corde simili a quelle della chitarra. Costava un milione e 800 mila euro ed era ricavato in un palazzo in via di ristrutturazione. La notizia comparve su un quotidiano locale, venne ripresa dalle agenzie e diventò tormentone nazionale. Il pensiero di regalare un appartamento alla madre divenne l’inquietante interrogativo: “Marchionne si trasferisce a Pescara?”. La notizia fu poi parzialmente smentita: “Mio cugino” raccontò Falasca “ ha cambiato idea e sua madre non vuole per adesso lasciare Toronto e tornare in Abruzzo”. E il famoso attico sul lungomare secondo alcuni sarebbe poi stato venduto a un calciatore della nazionale campione del mondo 2006 secondo altri, invece, sarebbe ancora libero e potrebbe essere acquistato dal ciclista pescarese Danilo Di Luca. E il gossip si fermò. Ma l’episodio resta significativo perché racconta in modo efficace il legame stretto di Marchionne con il suo passato e il suo clan famigliare. In particolare con la mamma, attesa in Abruzzo come ogni anno per l’estate, oggi una signora di 84 anni che non ha più voglia di abbandonare il Canada definitivamente. “Ogni desiderio di zia Maria (la mamma di Marchionne, ndr) per Sergio è un ordine” dice Falasca. Che racconta per dimostrarlo un aneddoto: “Zia Maria aveva voglia di vedere tutti i parenti. Così, su mandato di mio cugino, organizzai una cena collettiva in un ristorante di Pianella. Lei arrivò da Toronto, Sergio da Torino: eravamo credo più di 60. E non riuscii a portare tutti. Mio cugino regalò a ogni presente una penna d’argento”. Il folto clan rimpiange un po’ il periodo prima della Fiat: Marchionne aveva più tempo per i raduni tra parenti. “Abbiamo passato insieme molte domeniche casalinghe, riprendendo la tradizionale abitudine di quando eravamo ragazzi: dopo la messa tutti a casa dei miei genitori” ricorda Falasca. “Per cui, figuratevi, che risate oggi a rifare tutto ciò che facevamo allora, Per esempio, vi immaginate questo manager uomo copertina da Time e Newsweek che pensa in inglese e parla in abruzzese? Con noi si esprime in dialetto. E mal sopporta la scorta che lo segue passo dopo passo. Vorrebbe disfarsene. Qualche volta lo fa, ma solo parzialmente perché uno di questi gorilla resta sempre attaccato a lui. Non lo molla”. Orgoglio e affetto per quel ragazzo un po’ in carne, semplice e concreto che “si è fatto da solo. Anche le tre lauree, filosofia, economia e legge, le ha prese faticando senza sosta” dice Falasca che si capisce avrebbe propria voglia di guardare l’interlocutore dall’alto in basso, ma non lo fa perché potrebbe indispettirlo e non sarebbe utile per suo cugino. “Sergio era un ragazzo studioso, concreto, socievole e con valori molto formati. Ero convinto che avrebbe fatto un altro tipo di carriera. Per doti naturali lo avrei visto bene diventare un alto prelato. Un cardinale”. “Non è un caso” raccontano alla redazione del Centro, giornale abruzzese con gli uffici a Pescara, vicino alla stazione “che il 10 ottobre 2007 il supermanager abbia ricevuto la Cettè d’oro”. La Cettè (contrazione dialettale di Cettea) è la massima onorificenza di Pescara perché rappresenta San Cetteo, patrono della città abruzzese e, dunque, storicamente la più importante e intramontabile autorità, che si festeggia, appunto, il 10 ottobre di ogni anno. Il là che ha aperto la stura: ordine della Minerva dell’Università Gabriele D’Annunzio, attestati della Camera di Commercio e della regione, cittadinanza onoraria di Chieti che, per una sola consonante, ha battuto sul tempo la piemontese Chieri…”. “Qui da noi sono convinti, e forse a ragione” spiegano i cronisti del Centro “che l’Abruzzo sia strategico per la stessa visione globale e internazionale della politica industriale di Marchionne. Qui da noi, in Val di Sangro, c’è la Sevel, 7.000 dipendenti, joint venture attiva fino al 2017 con la francese Psa per la produzione del Ducato. A noi indubbiamente piace il suo stile diretto, poco enfatico e anche fuori dagli schemi. Diciamo così, abruzzese”. In effetti scompaginò le abitudini dei giornalisti quando, nel 2006 organizzò, alla presenza dell’amministratore delegato di Psa, la conferenza stampa del nuovo Ducato. Grandi firme e cronisti, anchor women e radio giornalisti non trovarono la solita atmosfera ovattata con rinfresco e spiegazione negli eleganti uffici. No, l’incontro con i 300 addetti all’informazione si tenne nella sala verniciatura. Davanti ai giornalisti e agli operai disse: “Non è un problema di costo del lavoro. Utilizzeremo fino alla fine gli impianti che abbiamo in Italia. No est. No Cina”. Un sannita che guarda alle cose concrete, ma che non considera le persone dei numeri. Soprattutto se si tratta di gente che lavora e fatica. Ennio Giansante, concessionario Fiat di Chieti, ha un ricordo molto preciso: l’ad di Fiat tra le maestranze della concessionaria che si informa delle loro condizioni di lavoro e di ogni problema. È successo il quattro febbraio 2007: quel giorno Giansante inaugurava il nuovo salone presentando al pubblico la nuova Bravo e Marchionne fece un blitz che riempì di gioia Chieti e l’Abruzzo. “Il primo ad arrivare fu proprio lui. Lo accolse un applauso interminabile. Per effetto della sua visita sono diventato praticamente famoso: c’è perfino gente che mi ha chiesto raccomandazioni. E ancora viviamo di rendita per questo piacevole incontro che ci ha fatto crescere di importanza. Dovremmo ringraziarlo. E invece è stato lui a ringraziare noi con una bellissima lettera, ricordandoci che suo padre comprò da noi la sua prima macchina: una 500 bianca”. A quanto dicono i suoi compaesani il ricordo del padre che fa vedere la macchina a Sergio poco più che bambino sarebbe stato come un segno premonitore: ancora oggi ricorda a memoria la targa di quella 500. E da quel giorno sarebbe nata la sua grande passione per le macchine e per la velocità: la 124 sport, la Lancia Delta Hf, la Ferrari, con cui ebbe l’incidente che lo vide miracolosamente illeso, sempre nel 2007, mentre stava tornando in Svizzera dalla moglie Orlandina e dai due figli, Alessio, studente universitario, e Tyler, che frequenta le scuole superiori. Quella paginetta scritta a Giansante, e per un po’ esposta in bacheca, conferma che davvero, come dicono gli psicoanalisti, il rapporto tra Marchionne e l’automobile aveva i connotati della storia “destinaria”. “…Come Lei sa” scrive Marchionne a Giansante “ho un ricordo personale della Vostra Concessionaria: mio padre acquistò la mia prima vettura Fiat proprio presso di Voi molti anni fa e ricordo ancora con emozione quel giorno in cui lo vidi rientrare a casa e mostrare orgoglioso il nuovo acquisto! Mi ha fatto molto piacere constatare inalterato nel tempo il clima di estrema cortesia e disponibilità verso il cliente che deve contraddistinguere il nome del nostro Gruppo. Sono certo che con una squadra così preparata non potremo che vincere…” Una squadra di cui, guarda caso, per lungo tempo ha fatto parte, al suo fianco, un altro giovane e grintoso abruzzese, fino al giorno prima pressoché sconosciuto. Il quarantunenne rampante Luca De Meo scoperto da Marchionne durante il repulisti che ha sconvolto il management romitiano, e portato a capo del marketing del gruppo, ora in volo verso la Volkswagen. “A 41 anni sento il bisogno di percorrere nuove vie professionali”, ha dichiarato lasciando la Fiat. Marchionne ha espresso dispiacere ma anche comprensione per la scelta di quello che era considerato da molti il suo delfino. Forse l’ad è addirittura intimamente soddisfatto di aver cresciuto un manager che, proprio come lui, è sempre pronto ad affrontare nuove sfide per raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi. Ammesso che la Volkswagen sia meglio della Fiat
Marco Gregoretti