“Papà, voglio andare in Ucraina a combattere”. Sul tranquillo pranzo famigliare infrasettimanale calò un gelido silenzio. E sotto il tavolo le gambe del genitore e, forse, anche quelle della genitrice, cominciarono a tremare. “Mio figlio” pensò quel padre in apnea, ha 14 anni, fa il primo anno di liceo e vuole imbracciare un fucile… “Ma dai che dici, suvvia…” “Eh, papà, ma scusa, se lo voglio fare ho il diritto di farlo. Per me decido io”. “Non proprio…”. E qui la risposta più scontata, ma, forse, anche più realistica inasprita dalla paura. “Fino a quando sarai minorenne deciderò io. Poi a 18 anni potrai andare dove ti pare. Io le mie smanie bellicose potei risolverle diversamente: un anno in caserma a fare il servizio militare. Naja si chiamava. Quando tornai a casa sapevo lavare per terra alla perfezione, cucire i bottoni, stirare i pantaloni, montare una tenda, cucinare per trenta persone e sparare con il fucile Fall… Ed ero diventato convintamente pacifista”. “Ah io, papà, lo farei subito il servizio militare se ci fosse. Però intanto voglio andare a combattere. Voglio andare a Kiev”.
“Perché?”. “Perché non è giusto che bombardino le case. E poi ho paura che facciano la guerra anche qui. Atomica”.
“Capisco il tuo pensiero. Ma è meglio che tu te ne stia a casa. E poi le armi non sono uno scherzo. Ci vuole tempo per imparare a usarle”. E qui il colpo di scena che fa capire tante cose: “Ma papà, ma se gioco da anni con Fortnite…”. “Sei serio? “Sì, no, boh”.
Marco Gregoretti