Ecco la traccia del mio intervento al convegno sulla sicurezza organizzato a Milano dall’Associazione Impegno & Libertà, e svolto sabato sette aprile alle 15,30 nell’Aula Magna del Siam
In un mondo infiammato, nella sua stessa quotidianità, da ogni genere di conflitto assordante e accecante, bellico, individuale, culturale, religioso, generazionale, economico e sociale, porsi il tema della sicurezza rischia di suonare quasi paradossale. Potrebbe farci apparire come quelli che cadono dal pero e che, finalmente, si accorgono che qualche cosa nella vicina Libia, nello Yemen, nel quartiere dove viviamo, in Somalia, in Nigeria e a Parigi, stia succedendo. Eppure, visti i clamorosi ritardi di intervento e gli sbalorditivi errori di valutazione e di analisi, (mi chiedo se sempre in buona fede), parlarne e agire di conseguenza, è l’unica cosa che possiamo fare per metterci una pezza e per recuperare un po’ del tempo perduto, prima che sia troppo tardi.
Io credo che oggi, come dicono i francesi, tout ce tienne: gli stadi, alcune frange dei centri sociali, l’antagonismo, le cosiddette cellule del mondo dell’estremismo islamico, i reclutatori di Isis, il lato oscuro del web, convergono in un punto: mettere la società civile in uno stato di annichilimento, di paura. Abituarla a vivere guardandosi le spalle. Suscitare il conflitto, seminare zizzania.
Naturalmente, a mio avviso, nel territorio il pericolo strategicamente, ma anche tatticamente, più incombente è quello del pretesto religioso. Che cerca e trova alleanze momentanee nei luoghi dove decide di penetrare con la sua azione.
Il giorno della Festa delle Forze armate l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano espresse un concetto, ribadito pochi giorni dopo, che non nascondeva i suoi timori, evidentemente documentati. Rivolto ai militari esortò i nostri soldati a tenersi pronti ad azioni preventive e repressive per fronteggiare pericoli e sommovimenti mai vissuti dall’Italia del dopoguerra, causati dalla sinergia tra “forze esterne e gruppi antagonisti interni”.
Il traffico di droga, quello di armi, un’ approssimativa e abborracciata analisi della questione mediorientale e di quella palestinese in particolare, l’antisemitismo oramai dilagante anche nei discorsi di certi movimenti politici, insieme alla perdita crescente dei nostri valori identitari, storici e culturali, hanno creato un combinato disposto che, piano, piano, gradualmente, dall’11 settembre 2001 in poi, si è insinuato nel nostro vivere quotidiano.
Un rapporto dell’intelligence spagnola, 12 anni fa, metteva in guardia su due fronti: 1) il rischio del diffondersi del terrorismo “calle barrocha”, strada per strada, con azioni indiscriminate davanti ai supermercati, davanti alle scuole, nelle vie tra i passanti, praticati soprattutto con i coltelli (era appena stato fatto a Madrid un sequestro di armi da taglio provenienti dall’Algeria) 2) l’insinuarsi tra noi di “terroristi” con la nostre facce, terroristi fondamentalisti della porta accanto, che più occidentali non si può. Quell’allarme di cui mi parlò a lungo, personalmente, anche rilasciandomi una serie di interviste “El Lobo”, tra i più popolari e coraggiosi operatori del controspionaggio e dell’antiterrorismo spagnoli, fu sottovalutato e, in alcuni casi, perfino censurato, soprattutto in Italia. Purtroppo era tutto vero come più di una vicenda attesta sotto gli occhi di tutti noi.
Nei mesi scorsi è stato segnalato, in Italia, lo sbarco illegale del più grande quantitativo di armi provenienti dal Kossovo, attraverso la Bulgaria. Si sarebbero già viste in azione quelle armi, per esempio, il 27 novembre 2014, sulla autostrada A1, nei pressi di Lodi, durante la rapina fallita al furgone blindato di un portavalori. Secondo alcune mie fonti quell’assalto avrebbe dovuto fruttare cinque milioni di euro da destinare a gruppi terroristici. In Val di Susa, dove le popolazioni locali hanno anche argomenti da non sottovalutare, si sono infiltrati gruppi antagonisti il cui unico scopo è quello di provocare tensioni e non certo di farsi carico delle istanze ambientaliste dei valsusini. Gli accadimenti romani del 20 febbraio scorso che hanno visto gli hooligans olandesi devastare il centro storico, nessuno mi toglierà dalla testa che rientrino in una regia precisa e che non si trattasse solo di ubriaconi. Quello degli ultras del calcio, peraltro, è uno dei terreni internazionali dove più alto è il livello di presenza “scientificamente” violenta e armata non più solo di bastoni e di coltelli, ma anche di pistole, e dove sempre più consistenti sono le infiltrazioni criminali e pre-terroristiche. Un ultras che ho recentemente intervistato mi ha detto: “Qualche pistola oramai si vede. E se si tratta di andare contro gli sbirri non esiste più rivalità tra di noi: tutti uniti contro le guardie”.
A volte, quando sento i discorsi della politica, dei ministri, dei sottosegretari e di alcuni parlamentari, mi chiedo: “ma dove vivono questi signori? Chi fornisce loro le informazioni? Qual é la vera funzione del Copasir? O dell’Aise, o dell’Aisi?”. L’esempio più calzante di superficialità e approssimazione di analisi, a mio avviso, è proprio quello che riguarda il cosiddetto fondamentalismo islamico. Non voglio qui dilungarmi in una disamina storico- religiosa che sarebbe noiosa e che uscirebbe dalle mie competenze. Dico solo che il conflitto si perde nei millenni e che continuare a chiamarli terroristi è il più clamoroso degli errori che, anche per comodità semantica, commettiamo.
Si tratta di un esercito con mille facce, che combatte una sofisticatissima guerra “all’orientale” su più livelli, su più piani. Quello politico, quello diplomatico, quello economico e quello militare. Che ha la religione come pretesto per perseguire un disegno di potere. Sono personalmente convinto che aver chiesto la costruzione delle Moschee sia stato un atto di astuzia politica, tesa a seminare tensioni tra parti politiche e parti sociali, tesa, insomma, a indebolire la nostra tenuta unitaria. Un vero depistaggio, secondo me, fermo restando il principio costituzionale che sancisce la libertà di osservanza.
Il punto non è costruire o non costruire la Moschea, il punto è farci litigare per la Moschea. E noi, francamente, ci caschiamo come polli. Così come a volte abbocchiamo ai complottismi diffusi da loro stessi in rete che recitano un karma che, purtroppo sulle giovani generazioni ha molto appeal perché strappa l’applauso della demagogia: “È colpa dell’asse Usa-Israele”. Non c’è bisogno di scomodare Sun-tzu, poi, per cominciare a capire che le cosiddette cellule dormienti, i presunti casi isolati, gli attentatori organizzati, il livello militare, insomma, non sono terroristi, ma sono soldati che combattono, appunto, la guerra all’orientale, una guerra invisibile con soldati invisibili, con modalità, con sistemi e con regole di ingaggio che ci spiazzano perché sono anni luce diverse dalle nostre. Con sistemi di finanziamento che vanno dal porta a porta settimanale fino ad alcune ricche e potenti famiglie.
I nostri apparati cercano terroristi, ma loro sono soldati. L’altro errore che incide sempre più sulla nostra sicurezza, da questo punto di vista, è il depistaggio culturale e religioso: credere, per esempio, che Isis sia un fenomeno isolato e che non c’entri con altre sigle. È vero che il pianeta Islam estremo (e forse non solo) sia un dedalo variegato, ma, come gli ultras sono tutti uniti contro gli sbirri, loro sono assolutamente coesi contro l’Infedele. E questo, se non lo teniamo in considerazione, potrebbe avere riflessi davvero drammatici, come, peraltro, la storia ha già segnalato, sulle nostre singole vite. E sulla nostre libertà, i cui spazi sono sempre più ridotti.
Marco Gregoretti