Maresciallo Marco Diana:
Un mio articolo del 2005. Il calvario e la malattia del Maresciallo Marco Diana, medaglia d’oro al valore e simbolo della lotta contro l’uranio impoverito
Questo articolo lo scrissi nel 2005 per un famoso magazine “giovanile”. Lo ripubblico nel mio blog per non dimenticare. Per non dimenticare la dolorosa vicenda del uranio impoverito, un eroe, un patriota colpito da un male terribile. Colpito dall’uranio impoverito
(MG)
In Sardegna il tempo può cambiare all’improvviso. Anche la temperatura. Così
può capitare che esci di casa con il sole e il caldo, fai 200 metri a piedi
e quando arrivi dove devi andare si gela e soffia un vento che quasi ti sbatte
giù per terra. Quel giorno, sabato 16 aprile 2005, per Marco Diana, 37 anni,
maresciallo dei granatieri di Sardegna, percorrere la poca strada che lo
separa dalla macchina al cinema Miramare nel lungomare Valencia di Alghero,
deve esser stato veramente difficile. Ma lui vuole arrivarci a tutti i costi,
nonostante una terribile malattia lo faccia reggere in piedi per miracolo,
lui che era un uomo forte, duro, combattente. Lui che si é sacrificato per
aiutare i terremotati dell’Umbria e per questo ha ricevuto la medaglia d’oro al valore.
Lui che ha fatto pericolose missioni militari in Somalia e in Bosnia. Lui
che ha combattuto, con l’operazione Vespri siciliani, la mafia a Palermo.
Lui che quel suo coraggio, sta pagando con la vita. Marco non può mancare,
non vuole mancare. Si parla di uranio impoverito, triste protagonista di questo articolo.
Marco arriva sorretto da un amico. L’impatto é fortissimo. L’emozione mi chiude lo stomaco. Traballante, giallo in volto, con una tosse
che non lo abbandona mai, nella sua splendida divisa che mostra tutte le
luccicanti decorazioni. E’ seduto dietro di me. Scambio due parole con lui. Ha uno sguardo forte. «Ho sempre creduto nei valori. In quello della patria. Ci credo ancora. La patria é una cosa, i politicanti un’altra». Rompe il protocollo e riesce ad arrivare al microfono. E’ come se dovesse svolgere, nel tempo che gli resta prima della morte che non tarderà ad arrivare, una missione molto importante: avvertire il mondo che se lui è conciato così lo si deve all’industria dele armi, alla politica reticente, ai vertici militari silenziosi di fronte al dramma. I proiettili all’uranio impoverito sono sicuramente più efficaci e penetranti. Ma uccidono chi li usa. Contaminano, con le polveri che provocano, le zone per chilometri e chilometri. Danneggiano le popolazioni civili e per più di una generazione. E’ tutto scritto nei documento ufficiali. In quelli della Nato. Eppure il ministro della Difesa italiano (solo lui in Europa) assicura: soldati italiani che sono stati in missioni all’estero hanno tutti lo stesso tipo di cancro? Alcuni di loro addirittura muoino? Che c’entra l’uranio impoverito? Solo una coincidenza. Per questo Marco Diana ha le palle. Sta morendo eppure continua a combattere. Per se stesso. Per gli altri oltre 120 ammalati e per i 23 morti. Ma anche perché si sappia, contro ogni censura e ogni insabbiamento.
Il suo racconto, quello che ti fa di persona seduto in un cinema, quello che ripete, uguale e identico davanti a tutti, sbugiarda ministri reticenti e scienziati poco obiettivi. Esiste, eccome, il nesso tra malattie mortali, deformazioni genetiche, morti misteriose e l’uranio impoverito. «Non posso neanche più avere rapporti sessuali. Il cancro si é esteso
testicoli. Non so quanto vivrò. Non ho i soldi per curarmi. Grazie alla Regione
Sardegna che mi ha aiutato.E ai privati che hanno sottoscrtitto per pagare
le mie costosissime cure. Non ringrazio i politicanti». Pochi giorni dopo l’intervento al convegno il Ministero della Difesa gli ha concesso la causa di servizio con un risarcimento di 900mila euro per il danno biologico subito. Una ammissione di colpa implicita che la dice lunga sulle bugie raccontate dyurante il suo lungo calvario
Marco non può dimenticare quel giorno d’agosto del 1998. Dopo nove anni di servizio attivo, mentre lavora nella Mensa sottoufficiali si sente male. Lo portano a Perugia. Cancro al fegato, diagnosticano. Gli fanno la chemio terapia. Sbagliato. Gli danno sette giorni di vita. Dopo sette anni é ancora vivo. «Ma non so per quanto » dice. Per motivi economici le cure sono state a lungo sospese «Per questo sto solo aspettando». Ha detto migliaia di volte.
Da rompersi la testa: Marco sta morendo per colpa della superficialità e del pressapochismo. Si è ammalato nella missione di pace più famosa, quella in Somalia. La stessa degli stupri e delle torture, la stessa in cui sono stati uccisi i giornalisti della Rai Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Non è mai stato detto, ma tutti sapevano: a Mogadiscio a Balah, si sparavano proiettili e bombe all’uranio impoverito. Gli americani avevano avvertito tutti i comandie tutti i comandi avevano le disposizoni tecniche da osservare per ripararsi ed evitare danni gravi ai militari «e anche ai loro figli». Danni e malformazioni, per inciso, che colpiranno per sei generazioni.
Ecco cosa ricorda Marco di Mogadiscio, dove i Black Hawk e gli Ac 130 bombardavano a tappeto: «Si sollevavano grandi nubi bianche da terra. E dopo pochi minuti eravamo
tutti impolverati. Nelle mani, nelle braccia, in faccia (i danni maggiori
sono causati proprio dalle polveri). Io, poi, ero capo della scorta che trasportava armi, missili e mezzi da Mogadiscio. Tutto doveva passare per una bonifica chimica, nucleare e bioloigica. Noi la facevamo in calzoncini corti e a torso nudo. E mi chedevo perchè, invece, gli americani indossassero tute di scicurezza e maschere. Noi a mani nude nelle zone contaminate».
Inutile protestare e denunicare: la logica delle note caratteristiche del militare vince sempre: se protesti non fai carriera. «Ubbidisci in silenzio».Eppure, é strano, Marco ti da l’idea che rifarebbe tutto. Non sa neanche quanto gli resti da vivere, e pensa di aver servito la patria. «Tutto cominciò quando partii per il servizio militare, nel 1989» racconta. E mentre lo dice, quando lo scrive, si capisce che quella parola, «militare» per lui ha significato,tanto. Tutto. La vita stessa. Aereonautica, accademia sottouficiali a Viterbo, scuola di fanteria e cavalleria a Cesano di Roma. Specializzazione: comandante di squadra missili, prima alla 32esima compagnia controrcarri della Brigata Granatieri di Sardegna, poi, quando fu sciolta, a Roma al secondo reggimento Granatieri di Sardegna.«Dove mi ordinarono di gestire il controllo e la manutenzione dell’armeria per il settore convenzionale, artiglierie di reparto,sistemi missilistici, materiali nbc…». Un bel curriculum. Ma viene un sospetto: siamo sicuri che l’uranio impoverito l’abbia incontrato per la prima volta in Somalia? Oramai é accertato che già durante la guerra del golfo, nel 1991, vennero usati armamenti (sembra anche i rivestimenti dei carri armati), bombe e
munizioni che contenevano quella terribile sostanza. Morale della storia: guardo Marco. Me lo immagino che si prodiga per gli altri in giro per il mondo. Lo vedo lì che sta morendo. Penso che voleva essere eroe in un altro modo. E mi viene da dire ad alcuni miei amici che hanno partecipato alle missioni militari all’estero: buttate subito via quei proiettili che vi siete portati come souvenir.
Marco Gregoretti
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