Discutevo con un uomo che del caso Moro sa tante cose, forse tutto o quasi, ma nessuno vuole ascoltarlo. Gli dicevo che, basta, non se ne può più di questa storia, oramai sono passati 38 anni e agli italiani non gliene frega più nulla. Commissioni ,processi rivelazioni a comando, depistaggi veri e presunti… Che noia!!! Però… Visto che un giovane liceale durante un dibattito sul terrorismo mi ha chiesto che cosa pensassi del sequestro e dell’assassinio dello statista democristiano, fervente cattolico al punto che andava tutti i giorni a messa nella chiesa romana di piazza Giochi Delfici, e amico personale di Papa Paolo VI, ho rimesso mano alla questione. Delle connessioni medio orientali, del coinvolgimento di Carlos, dei documenti esclusivi del nostro controspionaggio dell’epoca, in questo blog trovate un bel po’ di materiale, documenti esclusivi compresi. Ma sfogliando le carte del mio archivio, ho trovato tante domande che mi ero fatto e un nuovo elemento politico economico che avevo poco considerato.
La mattina del 16 marzo 1978, in via Fani, a Roma, dove abitava Aldo Moro, furono sparati 91 proiettili. Trenta andarono a vuoto, 27 a segno sulla Fiat 130 guidata dall’appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci, 42 anni, dove secondo la versione ufficiale c’erano anche Moro e l’altro Carabiniere, il maresciallo Oreste Leonardi, 52 anni e responsabile della scorta di Moro. Gli altri 34 colpi colpirono l’auto della scorta che seguiva la 130: l’Alfa Romeo con a bordo i giovani poliziotti Raffaele Iozzino,23 anni, Giulio Rivera, 24 e Francesco Zizzi, 30. I colpi mortali furono 45: otto uccisero Ricci, nove Leonardi, otto furono trovati nel cadavere dell’agente Rivera, tre colpirono a morte il vicebrigadiere Zizzi, ben 17 crivellarono l’agente Iozzino. La domanda me la feci già quando, a fine anni Novanta, un operatore del Sisde che aveva partecipato, al tempo in cui era nei corpi speciali della Polizia, alla cattura del Brigatista rosso Prospero Gallinari, mi fece notare questo triste conteggio. Come aveva fatto Moro a uscire assolutamente indenne da questa pioggia di proiettili mortali anche contro la automobile con lui a bordo? Se questa evenienza, seppur con una percentuale minima, nel calcolo delle probabilità, sarebbe possibile, quel che è da escludere in modo assoluto è che una persona sinceramente credente, praticante e pia, come lui, dopo aver assistito a quel disastro, non avesse mai mostrato interesse per la sorte degli uomini della sua scorta ai quali, peraltro, era affezionatissimo. Insomma, mi chiesi, dove portarono subito dopo Moro? In un rifugio di cui solo le BR avevano le coordinate? Oppure aveva ragione Ferdinando Imposimato, che fu anche Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, nel sostenere che no, Moro era tenuto d’occhio anche dai Carabinieri di leva. Per che cosa? Per controllarlo o per proteggerlo? Ed è vero che la mattina del 16 marzo in realtà fu prelevato nella chiesa di via Giochi Delfici dove era andato per assistere alla Messa e non sequestrato sotto casa sua?
I soliti meandri dei misteri italiani. Un fatto solo era ed è certo: Moro doveva sparire a causa di quelle che lui stesso chiamava le “convergenze parallele”. Due sono abbastanza scontate e molto percorse. La prima: con il Compromesso storico, che prevedeva l’alleanza tra Pci e Dc, Moro toglieva definitivamente il più grande partito comunista dell’Occidente dal controllo dell’Unione sovietica e questo non era gradito al Kgb, ma neanche a Paesi fondamentalisti come la Libia. La seconda convergenza era la sempre maggiore vicinanza tra il leader DC e la vera struttura militare Stay behind, detta Gladio delle centurie (che non aveva nulla a che fare con la lista dei 622 “civili” che Andreotti portò in Parlamento). In qualche modo questi due elementi, Compromesso storico e Gladio, erano collegati: rapire Moro significava probabilmente anche entrare in possesso dell’intera rete di controspionaggio militare. Ma c’è un’altra “convergenza”, questa volta più economico-finanziaria, poco nota al grande pubblico, ma molto cara alla destra storica italiana perché metteva in discussione e aboliva definitivamente una applaudita decisione del Fascismo.
Benito Mussolini, con un decreto del 12 marzo 1936, trasformava la Banca d’Italia in Istituto di diritto pubblico con il compito di vigilare sulle altre banche e di emettere moneta. Proprio nel periodo del rapimento di Moro c’era al ministero del Tesoro, retto dal democristiano Filippo Mario Pandolfi, una unità di intelligence di altissimo livello di una potenza straniera amica. Che ci faceva in quelle stanze? Voleva sapere? Voleva proteggere? O voleva “suggerire”? Si stava cominciando a parlare di separare la Banca d’Italia dallo Stato, di far cessare il “matrimonio” con il Ministero del Tesoro, come poi è successo. Moro non era d’accordo e, con ogni probabilità, si sarebbe opposto duramente. Nel 1980 cambiò il ministro del tesoro e arrivò il democristiano proveniente dalla sinistra del partito, Beniamino Andreatta, lo stesso della casa dove, secondo alcune fonti, si sarebbe tenuta la famosa seduta spiritica raccontata da Romano Prodi del depistaggio che portò le Forze dell’ordine a cercare Moro a Gradoli, anziché nel covo di via Gradoli, come con un cablogramma al Ministero degli interni, aveva segnalato il dottor Franz, l’agente segreto italiano del Sid che operava a Praga. Nel luglio del 1981 Andreatta decise “la separazione consensuale” fra lo Stato e la sua banca centrale. “La Banca d’Italia” si legge su Wikipedia “non era più tenuta ad acquistare le obbligazioni che il governo non riusciva a piazzare sul mercato, cessando quindi la monetizzazione del debito pubblico italiano che aveva eseguito dal secondo dopoguerra fino a quel momento”. Oggi si sta formando sotterraneamente un movimento di pressione ideologica, molto ben informato, che, abbinando i due eventi, l’uccisione di Moro e la “privatizzazione” di Banca d’Italia, vuole chiedere una Commissione di inchiesta che si occupi della Banca centrale italiana. Uno dei possibili promotori mi ha detto: “Moro doveva morire per forza? Beh si chieda questo: come mai Mario Moretti, 70 anni, percepisce la pensione dal Ministero della Difesa?”
Marco Gregoretti